Valle di Scalve, la valle del ferro
Non si può parlare della Valle di Scalve senza
ricordare l’attività, che per più di 2000 anni, rese economicamente
possibile la sopravvivenza dei suoi abitanti: l’estrazione e la
lavorazione del ferro. Dai suoi monti fu cavata sin da epoche remote la
siderite, un carbonato di ferro presente in quattro strati chiamati banchi
ed avente una percentuale media di ferro del 40%. Un ciclo produttivo
completo permetteva alla materia prima, la siderite, di giungere dopo
varie lavorazioni al prodotto finito: zappe, badili, utensili, armi, a
seconda delle epoche, il tutto passando attraverso varie lavorazioni che
coinvolgevano svariate figure professionali, dai minatori ai
trasportatori, dai cernitori ai fornisti, dai carbonai ai fabbri ecc.
Questa economia autarchica giunse intatta fino ai primi anni ’30 del 900,
quando con decenni di ritardo, anche in Valle di Scalve arrivò la
“rivoluzione industriale”. Spinti dalla crescente richiesta di minerale
ferroso causata dall’embargo economico, tre grossi gruppi siderurgici,
Falck, Breda e Ferromin, acquistarono tutte le concessioni minerarie della
valle e diedero vita ad un consorzio minerario che rivoluzionò il modo di
lavorare in miniera. Dal 1936 quella che era stata un’attività quasi di
tipo contadina, -tanto è vero che lo scavo del minerale era chiamato
“coltivazione”-, legata al ciclo delle stagioni ed alle ricchezze naturali
del territorio, mutò radicalmente. Nel sottosuolo non echeggiavano più i
lenti rintocchi della mazza sul ferro da mina, ma i 2000 colpi al minuto
dei potenti e polverosi perforatori ad aria. Lo sferragliare dei vagoncini
carichi di minerale, aveva preso fortunatamente il posto dell’ansimare dei
“purtì”, bambini addetti al trasporto col gerlo del minerale; altri
trasportatori, gli “strusì”, scomparirono soppiantati da teleferiche a
gravità, che dalle bocche delle miniere convogliavano la siderite al
moderno centro di trattamento del “Gaffione”. Impianti di cernita
meccanizzati avevano preso il posto dei “taisadur”, operai che con un
martello “tagliuzzavano” tutto il minerale in pezzetti grossi come una
noce! Il carbone di legna, usato per la cottura del minerale, a poco a
poco non servì più perché il coke andava meglio e quindi anche la figura
professionale del carbonaio scomparve e le aiali carbonili si
rimboschirono. Dai primi anni ’50 anche l’ultimo forno fusorio, quello del
Dezzo, chiuse perché tutto il minerale dopo una prima cottura detta
torrefazione, veniva portato fuori valle per essere fuso. Le miniere
continuarono la loro attività per altri 20 anni, grazie anche al
direttore, l’ingegner Bonicelli. Purtroppo con la sua morte, avvenuta nel
1972, seguì di pochi mesi anche la chiusura totale delle miniere. Con essa
finì un mondo, quello della “ferrarezza”, quel mondo che in queste quattro
giornate si vuole ricordare con i suoi protagonisti e le sue vittime, con
i lati ingegnosi e le sue immani fatiche rivivendole per bocca degli
ultimi minatori rimasti; osservando come la legna nel “poiàt” si
trasformava in carbone; guardando con quanta abilità un anziano
ricostruisce un “giarlì di purtì”, oppure gli zoccoli ferrati usati dagli
“strusì”. E toccando con mano le centinaia di lampade da miniera esposte,
non si potrà non pensare ai minatori che le hanno usate, uomini che hanno
rinunciato, maggior parte della loro vita, al piacere della luce per
permettere alle loro famiglie di sopravvivere.
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Museo all’aperto
Il paesaggio della Valle di Scalve conserva un
ricco patrimonio di testimonianze importanti, non solo dal punto di vista
storico, artistico ed etnografico, ma anche ambientale e naturalistico.
Conoscere il proprio ambiente con i suoi contenuti naturalistici, storici,
etnografici ed artistici è il primo passo per conservare, salvaguardare e
valorizzare nel territorio tutti quegli elementi essenziali della memoria
storica da tramandare alle generazioni future (miniere, reglane, calchere,
aie carbonili, strade e mulattiere militari, roccoli, malghe, fontane,
santelle …).
Ben vengano, allora, le iniziative, come quella proposta il primo
maggio,dal gruppo culturale “Gli Amici dell’Orso” di cui siamo ospiti
questa sera.
Vincente è stata l’idea di abbinare il momento storico-culturale (visita
guidata alle miniere) con quello naturalistico (visita guidata al giardino
botanico naturale Fondi-Cimalbosco) e gastronomico (degustazione di piatti
tipici locali presso i ristoranti della zona).
L’idea guida è quella di proporre itinerari tematici segnalati che
permettano di percorrere il territorio e di scoprirne le ricchezze,
promovendo un turismo dolce e rispettoso dell’ambiente, un turismo che
ritempra e arricchisce, un turismo didattico e di studio.
Seguendo il solco ben tracciato lancio una proposta: perchè non
individuare e censire sul territorio i manufatti di vario tipo che grazie
all’intervento pubblico e/o del volontariato possano essere recuperati e
valorizzati? Un esempio pratico: “le vie degli strusì”, manufatti (anche
se in parte fatti con i piedi, cioè con il passaggio), simbolo del duro e
faticoso lavoro dei minatori che opportunamente recuperati potrebbe
concorrere alla rivitalizzazione dell’escursionismo in chiave
storico-culturale.
Imerio Prudenzi, Presidente del Museo Etnografico di Schilpario |