Il disastro del Gleno
Ma fu vera colpa?
Tra le ipotesi quella dell'attentato - La drammatica testimonianza di Virgilio Viganò nel carteggio inedito (1924-1928)

Siamo in grado di pubblicare un carteggio inedito di Virgilio Viganò, il grande imputato del Disastro, che si era costruito la villa a Vilminore, Le ipotesi sulle cause del crollo furono molte. Quelle più ricorrenti furono riferite ad errori di progettazione, a cattiva esecuzione degli stessi ("i getti venivano posti a contatto dell’acqua che cresceva con la costruzione della muratura"), la roccia "eruttiva porfirica" esistente nella parte centrale (quella che ha poi ceduto) che non era stata rilevata dalle indagini geologiche del prof. Torquato Taramelli, cattedratico di Pavia, il quale invece aveva rilevato solo la roccia sedimentaria (sulla quale la diga ha resistito). Ma poi dicerie e fantasie si sono susseguite, alla disperata ricerca di una ragione plausibile che non fossero l’avidità, la noncuranza, la superficialità, l'incompetenza. Certo, dalle lettere di Virgilio Viganò emergono nuovi aspetti. Si è parlato anche di un attentato e di una scossa di terremoto. Attraverso un’attenta lettura di una quarantina di lettere che Virgilio Viganò ha Inviato ad un amico e collaboratore in Valle di Scalve dal 1924 al 1928, si comprende come egli stesso e la sua famiglia debbano essere considerati in un certo senso, pure in contrasto con la pubblica opinione, danneggiati e vittime del drammatico evento. Un grande numero di queste missive sono listate a lutto: segno evidente che conferma la partecipazione al dolore da parte della fraterna Viganò. Anche se in una nota pubblicazione sul disastro del Gleno si avalla in ogni circostanza la tesi della assoluta colpevolezza della ditta Viganò in merito allo scoppio della diga, non mancano tuttavia elementi che fanno ritenere che qualcuno, unitamente a strane coincidenze. abbia agito con il solo scopo di fomentare con ogni mezzo l’avversione nei confronti dei Viganò: tutto questo avrà poi un peso in occasione della condanna degli industriali cotonieri di Ponte Albiate. I periti dei Viganò, gli ingegneri Baroni, Granzotto, Kambo e Marzoli, nel corso della studio effettuato in preparazione del processo del 1924, affermano infatti, a pag. 59 della relazione: "L’opinione pubblica, come accade sempre dopo il crollo di una grande opera aveva subito decisamente condannato progettisti e costruttori (...). I giudizi di pura impressione che sono in simili avvenimenti pronunciati facilmente anche da tecnici competenti (cioè i periti nominati dal tribunale, n.d.a.), le testimonianze che spontaneamente sorgono dal pubblico clamore ed assumono aspetto di verità (...) avevano decisamente influenzato l’opinione pubblica verso la condanna di progettisti e costruttori". Secondo gli esperti di parte dunque è possibile che tali condizioni abbiano "esercitato la loro influenza sulla ricerche dei signori periti del Tribunale". L’esame delle lettere di Virgilio Viganò, che nel 1918 succede al fratello Michelangelo nella direzione dei lavori della diga per conto della ditta "Galeazzo Viganò", invita ad una serie di considerazioni e riflessioni con le quali non si vuole offendere nessuno, tantomeno la memoria delle centinaia di vittime innocenti. La prima lettera risale al 18 dicembre 1924: "(...) Io pure ho spedito L. 500 al Parroco di Dezzo per l’uffi cio (del 1” anniversario) non sapendo cosa fare altro dato le continue ostilità e affronti fattimi. In quanto al desiderio che ritorni in Valle a ripristinare l’impianto non puoi dirlo a tutti che il mio più forte dolore (oltre quello delle povere vittime) è stato quello d’essermi visto così allontanare dalla Valle come un colpevole e senza cuore dando così man forte ai nostri nemici (i grossi industriali danneggiati, n.d.a.) per rovinarci completamente. Mentre s’io fossi rimasto in Valle anch’io come un danneggiato e vittima come tant’altri, a quest’ora quanto si sarebbe fatto per soccorrere specialmente i piccoli danneggiati rimasti senza casa e senza aiuto. Non schiacciati sotto l’imposizione e la denuncia di responsabili e quindi sotto sequestro, avremmo avuto la possibilità di soccorrere i più bisognosi a quest’ora l’impianto (anche senza diga) sarebbe di nuovo funzionante e tutti i danari che si sarebbero incassati si sarebbero potuti distribuire ai danneggiati. Invece così tutto deperisce a danno di tutti. (...) Ma chi è alla testa per dirigere gli altri (cioè i piccoli danneggiati, n.d.a.), se invece di volerci strappare per forza l’avere della nostra ditta come a dei colpevoli che devono pagare per essere condannati (...)". Nella lettera del 30 dicembre ‘24, Virgilio Viganò esprime, anche negli scritti successivi, la preoccupazione che qualcuno possa manomettere qualcosa nella galleria di scarico: vi potrebbero essere persone che hanno "interesse a far scomparire qualche traccia". Bisogna ricordare a tale proposito che la tesi sostenuta dagli ingegneri periti di parte, fu quella di un probabile attentato: l’ipotesi venne avvalorata anche dall’autorevole relazione del Colonnello Ottorino Cugini, comandante del Genio del 2° Corpo d’armata: non essendo suo compito indagare sulla scomparsa di 75 Kg. di esplosivo dai cantieri della diga, avvenuta alcuni giorni prima dello scoppio! tuttavia egli conclude che "devesi ammettere come possibile la rovina soltanto come conseguenza di un urto notevole, istantaneo (...) tale urto notevole. istantaneo e contemporaneo, è specifica conseguenza degli alti esplosivi". Sul possibile crollo della diga causato da esplosivo posto nella galleria di scarico, anche sulla scorta della perizia del Colonnello Cugini, i periti scrivono (pag. 80): "... Tutto ciò avvalorò in noi fortemente l’ipotesi di una esplosione sulla passerella o contro la volta della galleria, così da formare convinzione (...) e dalle confidenze precedentemente sussurrate in Val di Scalve". Ammesso che di attentato si possa parlare, è evidente che l’intenzione non poteva essere quella di provocare il crollo della diga, ma di danneggiarla. Il carteggio di Virgilio Viganò riprende il 24 gennaio 1925: diventa insistente l’accenno al comportamento dei "grossi industriali": "(...) Il processo è stato nuovamente rimandato anche contro la volontà dei giudici e specialmente dei grossi industriali che volevano assolutamente farlo e da quanto ho sentito dire, affinché si rompessero le trattative fra noi e i piccoli danneggiati e per poter fare quello che accomodava a loro, specialmente per poter portarci via l’impianto del Gleno. Benché malignamente fanno pubblicare su qualche giornale che loro con nobile gesto spontaneo si postergano ai piccoli danneggiati spero che in Valle avrete ben capito che non è così c che loro mirano più specialmente ai loro interessi (...)". Qualora gli fosse possibile avviare direttamente le trattative con i piccoli danneggiati, Viganò è certo che "restando io in Valle me ne ricorderei sempre ed aiuti si possono sempre dare in avvenire sia a privati che per opere pubbliche". Nella stessa lettera Viganò dichiara di essere disposto a far eseguire gratuitamente il progetto per la nuova chiesa di Bueggio: "...e così in seguito, se la causa ci va bene, con un po’ di volontà vostra e aiuto mio la chiesa l’avrete di sicuro e a vostro piacimento molto più presto (...)". Quanto all’aiuto promesso per la nuova chiesa, nella successiva del 31 gennaio ‘25, Viganò conferma le proprie promesse: "(...) La cosa sarebbe stata semplicissima se non fossimo stati allontanati così odiosamente dalla Valle (...) se in Valle si persuadessero che sbagliano a continuare a mettersi contro di me: “così fra i due litiganti il terzo gode” ed il Governo non fa niente (...)". Insistente è la richiesta di poter trattare direttamente con i piccoli danneggiati, ma con il sequestro in atto sono proprio loro che "(per l’ingordigia dei grossi che vogliono portarci via tutto) ne soffrono,. Nella seconda metà del febbraio 1925 i "piccoli danneggiati di Dezzo e di Bueggio", accompagnati dall’Avv. Marino Maj, hanno un incontro con Virgilio Viganò: egli invita il suo confidente di convincerli a fidarsi della Commissione ristretta: "(...) Il nostro patrimonio è quello che è, come è stato controllato dall’autorità giudiziaria e dagli avvocati; e per venire ad un amichevole componimento non potete pretendere di ridurci alla miseria. D’altra parte ci sono anche i grossi industriali e le Provincie che continueranno a farci causa e quindi non permetteranno di toglierci il sequestro. (...) Siamo stati anche noi a Roma e tutt’ora vi sono degli incaricati; vi è stato un po’ di ritardo per la malattia di Mussolini e De Stefani... (...)". L’accordo con i piccoli danneggiati non viene definito ed il 21 luglio 1925 Virgilio, sull’orlo dell’esasperazione scrive a don Chiappa, parroco di Bueggio: "(...) Sotto un sequestro che ci tiene immobilizzati: dono tutto quello che abbiamo perso col disastro del Gleno, noi veramente abbiamo dovuto stendere la mano alle banche con gravissimi sacrifici anche per poter elargire i sei milioni ai piccoli danneggiati (...) ma che però speravamo fossero ricevuti con migliore accoglimento. Con tutto ciò non avrei mai ricusato di fare altri sacrifici anche per il decoro di quella religione che con convinzione professo. Ho dovuto invece constatare che qualcuno ha cercato di approfittare delle mie lettere (mandate in Valle al fine altissimo di un riavvicinamento) per cercare se qualcosa mi potesse compromettere e poter strapparmi ciò che non devo, (...) Come molte volte ho detto, ripeto che con tutta probabilità se invece della lotta accanita ci avessero acconsentita la via amichevole a quest’ora tutto sarebbe stato appianato (...): Ci hanno voluto assalire, è pur lecita la nostra difesa specialmente perché in coscienza e apertamente ci riteniamo noi pure fra le vittime maggiormente danneggiate". Il 15 ottobre 1925 Virgilio scrive al suo confidente: "Dal procuratore del Re vengo informato che si vorrebbero distruggere l’esplosivo che ancora si trova in polveriera trovandola pericolosa. Poiché mi sembra che la dinamite sia già stata tutta levata per ordine, a suo tempo, dai dirigenti le squadre di soccorso ai primi giorni dopo il disastro, così mi sembra strano che dopo due anni si pensi a questo". Dopo oltre cinque mesi di silenzio, Viganò vuole avere notizie sugli ultimi avvenimenti. La lettera è del 5 marzo 1926: "(...) c’è ancora molta neve in Gleno sulla diga e nel piano? Hanno distribuito i danari? Sono soddisfatti? Cosa dicono dei lavori dell’impianto a lasciarlo lì senza immetterlo in energia?...". Alcuni giorni dopo, il 13 marzo, Virgilio osserva che "se al Tribunale di Bergamo ed il Procuratore del Re sapessero che in Valle desiderano che si rifacciano i lavori perchè hanno bisogno di lavorare forse SI sbrigherebbero al più presto. Da parte mia poi io potrei sollecitare la cosa se fossi sicuro di essere ricevuto in Valle. Non voglio certo ritornare in Valle senza essere pienamente rispettato". Con la lettera del 4 giugno 1926 Viganò si dichiara dispiaciuto di non essere venuto in Valle: "(...) ma ancora non si è definta la transazione con le Provincie e i Comuni; una delle difficoltà maggiori è l’avvocato Bonomi col quale e molto difficile intendersi; sarà un mio sbaglio di vedere ma io dubito che egli essendo anche l’avvocato dei grossi industriali, coi quali non abbiamo combinato, non voglia farci combinare neanche con gli altri e fa apposta ad imbrogliare la matassa (...)". Nell’estate 1926 avviene un increscioso episodio nei confronti di Virgili0 Viganò e lui stesso ne coglie una giustificazione: "(...) Il sequestro di persona e i maltrattamenti fattimi da quelli del Dezzo, mi convincono sempre più che ci sia qualcuno che abbia interesse ad inveirli contro di me, per non permettermi di venire in Valle e così danneggiarmi portando come loro attenuante che Dezzo ha avuto molti morti mentre Vilminore niente. (...) Dimmi se puoi sapere qualcosa di chi ha interesse e cerca di inalzare quelli di Dezzo contro di me". Verso la fine del 1927 il curato di Bueggio invita Vigano a concorrere per la festa della prima pietra della Chiesa: "(...) Farei volentieri qualche cosa ma sono così demoralizzato e rattristato dal come vanno le cose in riguardo al Gleno che mi devo convincere che farei male a interessarmi. Dopo 4 anni dovrebbero considerare che si potrebbe permettermi di ricuperare e non sempre pretendere...,). Dai primi mesi del 1928 un improvviso mutamento nei caratteri degli scritti di Virgilio Vigano preannuncia i sintomi di una malattia che dopo pochi mesi lo porterà alla morte. Tuttavia chiede insistentemente notizie ed informazioni da utilizzare in occasione del processo: "(...) Ho letto sui giornali che vi è stato un forte terremoto a Lovere e dintorni (la lettera è del 20 gennaio 1928) e in Val di Scalve. Sappimi dire se si è sentito forte anche a Vilminore e specialmente dove a Bueggio, Pianezza, in Gleno, ecc...".
Tutto ciò perché i periti di parte avevano ipotizzato nel loro studio sulla cause del disastro, in subordine all’attentato dinamitardo, anche l’eventualità di un movimento tellurico. Nella lettera del 25 aprile 1928, Viganò sembra presagire la propria fine: "(...) In quanto al processo è stato rimandato pare a luglio. (...) Certamente dopo quasi cinque anni che continuo a lottare, a tribulare e a tirare fuori delle grandi somme. sono ormai esaurito moralmente e materialmente". Ed il 9 giugno: "(...) A me dispiace molto vendere la casa che avevo costruito io (la cosiddetta “Villa Viganò” a Vilminore. n.d.a.) ma d’altronde non posso lasciare scappare l’occasione mentre la casa continua a deperire ancora dopo quasi cinque anni ancora finito il processo e ancora sono accaniti contro di me per levarmi più danari che possono; prima erano quelli del Dezzo e danneggiati della Valle: noi gli enti pubblici e Provincie, ora sono gli industriali, che pur avendo avuto molte concessioni e vantaggi dal Governo, pretendono ancora molto da noi. Benché tu mi dica che in Valle si desideri che io ritorni ancora. trovo invece che si fanno tante avversità e guerra per farmi condannare anche in Appello. Se fosse come dici tu dovrebbero dimostrarlo un po’ meglio, specialmente in riguardo a quei testimoni che tanto male hanno detto di me, inventando e falsificando molti fatti ecc...ecc... Se si conoscesse un po’ più la verità tutto potrebbe andar meglio, mentre così gli industriali che sono ancora in causa, si approfittano di quelle testimonianze della Valle per accanirsi contro di me".
Quanto agli industriali ed alle loro rivendicazioni, è senz’altro utile un rimando alla citata pubblicazione di Giacomo Sebastiano Pedersoli "Il disastro del Gleno", nov. 1989, pagg. 208-209: a nome degli industriali danneggiati. l’ing. Cesare Pesenti, pochi mesi dopo il disastro, aveva chiesto ed ottenuto dal ministero dei Lavori Pubblici una serie di agevolazioni: al punto 3: Condonare le tasse erariali ed i canoni per tutta la durata della concessione, o quanto meno per 30 anni"; al punto 4 il rappresentante degli industriali strappava al Governo "la nuova concessione del Gleno agli industriali danneggiati, od a quelli di essi che facciano particolare istanza". Nell’ultima lettera del 14 giugno 1928, Virgilio avvisa che verrà al Gleno probabilmente il 22 dello stesso mese: Ma il giorno 16 viene colpito da emorragia cerebrale; quindi è il fratello Giulio che informa l’amico scalvino: "( ...) Tutti i dolori e le ingiustizie che da quasi cinque anni lo torturavano hanno assalito il nostro novero fratello...(...)". La morte sopraggiunge il 21 giugno 1928. Nel corso del 1933 la Società Anonima Galeazzo Viganò" viene posta in liquidazione e Giulio riassume le vicende della famiglia: "(...) Voi che conoscete perfettamente le complesse funeste vicissitudini subite dalla ns. Ditta, (...) noi per primi sopra tutto e sopra tutti fummo fatalmente avversati da sciagura le cui improbe conseguenze gravano ancor oggi sulla nostra industria, già disastrata dalla imperversante crisi che ci perseguita e che ostinatamente non cede".
A cura di Agostino Morandi

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