Un boato, il vento, il diluvio
di Piero Bonicelli

Era di sabato, quel mattino del 1 dicembre 1923. Pioveva da giorni e in alto era comparsa un po’ di neve già da novembre. C’erano dieci centimetri di neve quel 10 novembre e noi ragazzi siamo saliti alla diga a piedi nudi. Si piangeva per il freddo ma si andava per legna e i pezzi di armatura rimasti sotto la diga facevano comodo. La diga faceva paura, l’acqua usciva da tutte le parti, (Fermo Bianchi - Bueggio 1979). Alle sette del mattino cominciarono a sbattere le imposte delle case, si era levato il vento della disgrazia. I ragazzi erano nelle cucine per la colazione, la messa era finita, sul campanile il sagrestano di Bueggio ricaricava l’orologio, in chiesa c’erano ancora due donne. Saltarono i vetri delle finestre e un fiume di fango arrivò sulle porte. Qualcuno uscì di casa in tempo per vedere un fumo nero che annunciava la fiumana d’acqua della diga crollata, il campanile che correva dritto per una decina di metri, la chiesa che si spaccava in due, il cimitero portato via, la gente che correva su per i prati. Chi rimase intrappolato in casa corse in solaio, sperando che i muri reggessero. A Vilminore la gente si trovò con i vestiti bagnati fradici, vedendo il fumo di lontano e pesando alla fine del mondo. L’acqua si portò via le centrali, il santuario della Madonnina, un’altra centrale, e piombo su Dezzo. Il forno fusorio fu raso al suolo mandando impennate di fuoco, come le centrali, "alte come cattedrali". Un momento, poi la fiumana sembrava essersi persa nella gola del Dezzo. Torno indietro per l’evidente impossibilità di incanalarsi tutta d’un fiato, spazzò via quello che rimaneva, e corse giù di nuovo a portare disgrazia ad Angolo, Corna di Darfo e ai paesi sulla riva dell’Oglio, dove il fiume d’acqua andò a buttarsi portando il disastro, Rimase il fango e la morte. I sopravvissuti si gettavano per terra, si rotolavano nella melma, imprecavano con gli occhi allucinati oppure si muovevano come pazzi per il dolore. Al Viganò la notizia la portarono due donne che aveva a servizio. Stava a Vilminore, nella sua bella villa all’ingresso del paese. Le donne, bagnate inspiegabilmente da capo a piedi, annunciarono che qualcosa si era rotto, forse il canale che portava l’acqua a S. Maria. Poi videro la valle piena di fumo che bolliva. "Il Viganò si era allungato per terra e batteva la testa sui sassi. Gridavano e piangevano tutti" (Catì Bonicelli in Capitanio - Vilminore 1983). I giornali nazionali portavano la notizia in prima pagina con il numero dei morti buttato lì a caso, l’inventario dei vuoti non si poteva fare, i parenti lontani non erano ancora tornati a casa per trovarsi di fronte al fango. Tegole, materassi, coperte, porte, pentole, vestiti, sangue. E poi la fame. Il veterinario analizzava i pezzi di carne che si trovavano, per vedere se era carne umana o di animale. I morti furono 356 (235 in Val di Scalve e 121 da Angolo in giù. 180 nomi sono riportati sulla lapide nell’atrio della chiesa di Dezzo). Ma i numeri sono ancora oggi incerti, tanta gente viveva sola ed è sparita nel nulla della memoria sconvolta dei sopravvissuti.

www.scalve.it