Mostre
in Comunità Montana
Cronaca di un disastro annunciato
Gazzetta comunale dicembre 1993
Settant’anni
fa, il 1° dicembre del 1923, era di sabato.
La
gente viveva la sua vita di allora, scandita dai rintocchi delle campane, delle
stagioni e dalle feste comandate, non meno che dalla fame e dalla necessità,
dalle guerre e dalle pestilenze. Era nevicato e piovuto molto, per giorni e
giorni. I ragazzi stavano preparando i libri per la scuola, in cucina, dopo aver
mangiato qualcosa, non certo le colazioni raffinate di oggi, si mangiava per
reggersi in piedi, lavorare e studiare. Nelle chiese della valle la messa era
già finita da un pezzo. C’erano quelle messe mattutine, alle cinque, quando
l’alba era ancora da indovinare sulla montagna, come la fatica del giorno,
propiziata da una benedizione.
Erano da poco suonate le sette del mattino. D’improvviso si alzò il vento. La
gente per strada, in chiesa, nelle cucine, dalle stalle, sui sentieri, alzò la
testa incontro a quel vento sconosciuto, un vento che a dicembre non poteva che
essere di disgrazia. Le imposte presero a sbattere. Qualcuno uscì per strada e
fece in tempo a vedere arrivare quello che tutti in cuor loro già sapevano che
sarebbe un giorno o l’altro arrivato: «L’è ché oI lac», è qui il lago, è qui la
diga. L’aspettavano. Tutti sapevano e aspettavano, senza fare niente, senza
poter far niente, nella cieca fiducia che ci pensasse qualcun altro, che «quelli
là» sapessero il fatto loro, anche se l’evidenza raccontava il contrario. E
venne dunque, dalla Valle del Gleno, quello che doveva venire, IL DISASTRO. Tutti sapevano che
quella
diga non avrebbe retto, erano andati su a vederla, perdeva acqua da tutte le
parti e la si guardava raccontandosi storie di ruberie, di lavori fatti di
fretta, di muri che salivano in mezzo all’acqua che correva sotto le scarpe dei
muratori, la sabbia mal lavata, le impalcature rimaste nella malta, interi
sacchi di cemento nemmeno sventrati, carriole lasciate nel bitume, leggerezze e
trascuratezze, premonizioni, sogni, incubi che avevano spinto delle persone a
non dormire nei loro letti. Una cronaca di morte
annunciata, come quella storia lontana di gente che in paese sapeva che sarebbe
successo un delitto ma non alzò un dito per impedirlo, contando sul fatto che
qualcun altro si sarebbe mosso, toccava agli altri.
Del resto, il «Progresso» ha dei costi. Quel giorno il progresso si fece
pagare in natura: quasi quattrocento morti, quando si sfasciò la diga e la
fiumana d’acqua e di fango fu preceduta nella valle dall’angelo annunciatore
della morte, il vento e il boato, il tempo di guardare in alto e recitare un
amen.La furia dondolò sulle acque del lago di Lovere, cadaveri e masserizie, segnali
di un bollettino di guerre lontane, sulla montagna. Là in cima intanto i
superstiti vagavano nel fango con gli occhi spenti, come ubriachi di dolore,
barcollavano alla ricerca dei parenti, della strada, della piazza, della casa,
della chiesa, del sentiero, delle voci che si erano spente d’improvviso.
Passano i giorni, passano gli anni. Si dimentica.
La storia sembra condannata a ripetere i suoi errori. Ci sono state e ci sono
altre occasioni in cui l’intero paese che sa, lascia che le cose annunciate
abbiano il loro corso, nell’antica e nuova illusione che tocchi comunque agli
altri fare qualcosa.
Una parabola che serve anche per i nostri giorni. Perché gli «altri» siamo
noi.