PARTE TERZA
Riassunto e conclusioni

CAPITOLO NONO.
Introduzione - Critica generale dei metodi di ricerca adottati dai periti del Tribunale - Caratteristiche della rovina.

L'analisi esposta nella Parte Prima, di tutte le condizioni di fatto con le quali si venne sviluppando dapprima il progetto, poi la costruzione della diga del Gleno, i risultati dei calcoli della Parte Seconda e l'esame di tutti i rilievi che i tecnici fecero sul luogo, permettono di completare questi studi con la discussione e le conclusioni riguardo alle cause del crollo, eliminando quanto si dimostrasse derivato da fantastiche notizie, da deposizioni non sincere o da un esame incompleto.

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Le cause del crollo della diga del Gleno furono discusse da moltissimi tecnici nostri e stranieri in pubblicazioni ed in conferenze ed assemblee di Associazioni tecniche; vennero poi esaminate dai signori periti del Tribunale in due distinte relazioni, in una delle quali la ricerca e la discussione sono limitate all'esame geologico e litologico della sede della diga e nell'altra, di maggior mole, accettando le conclusioni negative della prima, la discussione e le conclusioni sono esclusivamente contenute nelle caratteristiche tecniche e costruttive della diga.

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L'opinione pubblica, come accade sempre dopo il crollo di una grande opera aveva subito decisamente condannato progettisti e costruttori fissando senza discussione ed esame, in errori di progetto e di calcolo ed in colpevoli economie, la causa del disastro.
I giudizi di pura impressione che sono in simili avvenimenti pronunciati facilmente anche da tecnici competenti, le testimonianze che spontaneamente sorgono dal pubblico clamore ed assumono aspetto di verità, anche se non hanno alcuna base nella conoscenza diretta e personale dei fatti, o sono frutto di una incosciente generalizzazione, avevano decisamente influenzato l'opinione pubblica verso la condanna di progettisti e costruttori. Queste condizioni d'ambiente hanno certamente esercitato la loro influenza sulle ricerche dei signori periti del Tribunale, attraverso le malsicure testimonianze di alcuni operai fra le centinaia che lavoravano alla diga del Gleno. Ora che tacciono i troppo facili e pronti giudizi, è certamente opportuno riassumere e discutere tutto il vario, confuso ed in parte sporadico complesso di ipotesi affacciate, per dedurre, alla stregua dei fatti e di reali rilievi, per quali cause il crollo abbia potuto prepararsi e prodursi istantaneamente.

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La rovina della diga del Gleno ha le seguenti caratteristiche che converrà aver sempre presenti nella critica delle diverse ipotesi:
a) Nei giorni precedenti il crollo, con le massime altezze d'acqua nel lago, non furono notate screpolature sulla fronte a valle, per quanto venisse frequentemente ed accuratamente esaminata da guardiani e da ingegneri;
b) Lo spazio occupato dalla rovina è limitato alla parte centrale della diga (tampone), là dove la base poggiava su rocce porfiriche fessurate secondo piani subverticali con declività verso valle, fessure che attraversavano la base stessa da valle (sinistra del Povo) a monte (destra del Povo);
c) La muratura del tampone è rimasta in gran parte aderente alla roccia (vedi rilievi dei periti del Tribunale e Allegato N. 47) e la superficie di frattura coincide, entro i piedritti e la vòlta della galleria di scarico e nella parte a valle della muratura, col piano di una grande frattura della roccia; frattura che attraversa tutta la sede centrale della diga, da un fianco all'altro della valle (Allegato N. 36);
d) Le superfici della muratura non crollata nella galleria di scarico non presentano la benchè minima screpolatura;
e) La frattura con la quale ebbe principio la rovina (pur essendo assai vasta, poichè dalla fronte a valle del tampone risaliva dai due lati al ciglio della diga), si manifestò quasi istantaneamente.
I tecnici che studiarono le cause della rovina, tennero poco conto di queste che pur erano le caratteristiche più importanti e discussero e giudicarono di dette cause indipendentemente da esse, allontanandosi così dalla sola traccia che poteva guidare in qualche modo nella ricerca. Alcuni vollero in un'unica causa esterna e di carattere straordinario - per esempio i moti sismici - trovare la spiegazione della rovina in tutta la sua estensione e rapidità, senza pensare che cause sismiche capaci di produrre effetti così grandiosi dovevano pure essere avvertite in un raggio di diffusione relativamente grande; cosicchè fu facile la ripulsa dei periti del Tribunale (vedi relazione Stella), i quali alla lor volta non spinsero l'esame fino a vedere se la stessa causa agendo con minore intensità, ma ripetutamente, ed aggravata da speciali condizioni locali, non sarebbe stata sufficiente a preparare condizioni così favorevoli alla rovina, che un'altra causa di potenza pur non paragonabile all'effetto finale, ma istantanea, riuscisse nel tragico momento a determinare il crollo.
Era quindi necessario esaminare obbiettivamente i possibili effetti di ciascuna delle varie cause esterne alla diga indicate nelle varie ipotesi, non soltanto per il caso della massima potenza corrispondente alla rapida ed immane rovina, ma anche per gli effetti di intensità assai minore, pur dannosi alla compattezza e resistenza delle murature della diga, che la stessa causa poteva produrre agendo con particolare frequenza; e ciò in relazione a quegli indizi o segni di tale sua azione che fossero ancora evidenti localmente.
Riassumendo poi sinteticamente gli effetti di degrado delle varie cause, si poteva avere una conoscenza abbastanza esatta delle reali condizioni della diga nella fase precedente il crollo e giudicare della natura e della potenza di quella causa istantanea che i periti del Tribunale non poterono scoprire e che producendo la grande, rapida frattura nel tampone, determinò con la spinta dell'acqua lo scorrimento e la rovina della parte centrale della diga.
E' questo il metodo di obbiettiva indagine che abbiamo seguito mettendo sempre le nostre deduzioni in relazione coi rilievi che venivamo man mano raccogliendo nei nostri sopraluoghi.

CAPITOLO DECIMO.
Le murature del tampone in relazione alle ipotesi dei periti del Tribunale, ai calcoli, documenti e rilievi.

L'esame di tutte le cause dannose alla stabilità della diga, e dei loro effetti, pur seguendo la traccia già esposta, non può essere disgiunto dalla discussione critica delle affermazioni, delle ipotesi e conclusioni della perizia del Tribunale. E' anzi necessario mettere in raffronto quelle affermazioni e deduzioni con le caratteristiche già citate del crollo e coi nostri rilievi di fatto. Eliminando così tutto ciò che non può essere realmente avvenuto, si verrà chiarendo la natura e gli effetti delle vere cause della rovina.
I signori periti del Tribunale dal controllo del calcolo degli speroni e delle vòlte multiple, vengono facilmente alla conclusione che le loro dimensioni e le loro armature metalliche ne assicuravano la stabilità. Del resto ciò era naturalmente confermato da quanto rimane a destra ed a sinistra dello squarcio, intatto, senza crepe, nonostante l'enorme sforzo laterale subito durante il crollo in aggiunta alla pressione della massima altezza d'acqua. Perciò i periti del Tribunale ricercarono la causa del crollo nel tampone della parte centrale della diga, immane blocco di muratura dello spessore di più di trenta metri, incuneato nella spaccatura del Povo entro il dicco di porfirite, così da formar corpo con questo, e attraversato parzialmente dalla galleria di scarico.
E ricercarono detta causa col presupposto di uno sfacelo del tampone per compressione, spingendo le loro deduzioni fino ad una ipotesi che dimostrasse tale tesi (vedi nostri calcoli nella Parte Seconda). Esempio evidente e fondamentale di questa orientazione diretta a giustificare una ipotesi catastrofica, è l'esame della distribuzione delle pressioni alla base del tampone, esame che nella perizia del Tribunale, è svolto nel seguente modo:
Il piano della frattura del tampone, declive con una inclinazione di circa 40°, ha interessato la vòlta della galleria di scarico, tagliandone di sbieco la parte superiore.
Limitando lo sguardo alla parte sinistra (per chi guardi verso monte), i periti del Tribunale determinano una piramide col vertice in basso compresa fra la parete verticale sinistra della galleria, la falda d'appoggio sulla roccia ed il piano della frattura. Questa piramide richiama alla mente dei periti del Tribunale, quelle che risultano dalla rottura dei solidi compressi e questo richiamo devia le loro ipotesi verso quella di una rottura della base del tampone per compressione. Ma è naturale obbiettare che una sola delle faccie di questa piramide è faccia di frattura; le altre sono i piani che limitavano naturalmente o per opera dell'uomo, quella parte di tampone. Se al contrario avessero allargato tutto lo sguardo a sinistra e a destra, essi avrebbero avuta la visione completa della superficie di frattura con declività grossolanamente costante e la loro mente sarebbe stata piuttosto richiamata ad altre cause di frattura.
L'effetto di compressione è allora così definito dai periti del Tribunale: "Da una parte verso il fianco della montagna, una superficie (EC) che invitava la muratura sovrastante a scoscendere verso il torrente; dall'altra l'assenza di ogni contrasto per la interruzione brusca e completa creata dalla galleria sulla rispettabile altezza di 10 metri (BAD) attraverso tutto il tampone; nel corpo della muratura, così male fiancheggiata, un flusso di pressioni discendenti dalla soprastruttura di forze incalzanti prepotentemente verso valle per la piccola scarpa data al tampone e per la sfortunata riduzione in questa zona a pochi centimetri della risega di passaggio al piede dei piloni".
Sarà meglio definire in forma meno sintetica le condizioni di lavoro di quella parte di muratura; poichè il flusso di pressioni discendenti ed incalzanti può pittoricamente indurre nell'errore di una concentrazione su spazi via via minori dei pesi e delle spinte di tutta la parte centrale della diga. In fatto le forze (p) gravanti su un piano M N superiore al volto A B, dovevano ridursi alla spinta H del volto, ad un carico verticale P e ad una spinta orizzontale da monte a valle, mentre sotto al piano M N ed inferiormente ad A si aggiungevano i pesi dei vari tronchi della muratura del tampone. Risultava quindi dalla loro composizione un sistema di pressioni (q) variamente inclinate contro roccia da C fino alla base E B. Se così non fosse e, contrariamente a semplici norme di statica, il flusso di pressioni si accumulasse in quella stretta fra la roccia e la parete B A come un flusso di vene liquide, tutte le dighe in strette gole di valle con aperture di scarico al fondo, dovrebbero frantumarsi alla base.
La verità è che la roccia lateralmente resisteva a pressioni normali ad essa, che l'adesione fra muratura e roccia contrastava alle componenti tangenziali e che la base E B doveva risultare pochissimo caricata. Ed infatti noi non rilevammo fratture nella parte inferiore della parete A B.
I periti del Tribunale furono inoltre specialmente impressionati dalla cattiva qualità del calcestruzzo di rivestimento sulla faccia a monte del tampone e da una lunga screpolatura con traccia orizzontale che corre lungo essa, attribuendola ad un inizio di tensione a monte.
La cattiva qualità del calcestruzzo di rivestimento ha in quel posto le caratteristiche degli impasti che hanno subito il gelo durante la presa; il che poteva facilmente accadere a quella altitudine. Diceva il Prof. Ganassini nella sua conferenza (alla Associazione Elettrotecnica Italiana) sulla diga del Vannino, che i paramenti interni devono essere tenuti intatti dal gelo almeno per otto giorni dopo la gettata e che le zone più cimentate per screpolature dovute al gelo, sono quelle corrispondenti ad una certa stazionarietà del pelo liquido. Ora si è visto che il lago cominciò a funzionare come serbatoio alle minori altezze quando la diga era ancora in esecuzione; l'orizzontalità della screpolatura indica chiaramente un livello rimasto durante l'inverno stazionario per qualche tempo. Ne segue che essa non penetra profondamente e non intacca la struttura muraria interna del tampone. Ed infatti nella superficie della muratura, ora scoperta verso valle, quella screpolatura non appare.
I periti del Tribunale rilevano anche che la parte di diga a destra dopo il pilone 13, rimase salda e non presenta screpolature ed attribuiscono ciò all'essere ivi la diga impostata sulla roccia, anzichè sul tampone.
L'esame della roccia avrebbe loro rivelato che ivi stanno i saldi banconi calcari e che i segni della rovina sono nettamente limitati alla zona porfirica fratturata. Se l'indagine geognostica non si fosse svolta indipendentemente da quella tecnica, ma le medesime persone avessero insieme fatta tutta l'inchiesta mettendo in relazione l'esame tecnico con quello delle rocce di base, i periti del Tribunale sarebbero rimasti colpiti dalla coincidenza del variare della roccia col cessare degli effetti del crollo e nelle loro conclusioni, anzichè limitarsi al tampone, avrebbero esteso il campo delle indagini sulle cause alle sottostanti muraglie porfiriche.

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Finito l'esame generale e d'impressione delle rovine, i periti del Tribunale espongono i calcoli di stabilità dei piloni e delle zone di tampone sottostanti, facendo varie ipotesi in ordine, diremo così, di stabilità decrescente. Il calcolo dei piloni fino alla loro base sul tampone, dà risultati normali. Il calcolo continua poi nella ricerca della condizione di lavoro del tampone per le zone centrali corrispondenti ai piloni 7, 8, 9, ove un dosso di roccia s'incunea nella metà a monte del tampone. Quantunque questi calcoli dei periti del Tribunale siano stati ampiamente discussi nella Parte Seconda della nostra relazione, e rifatti su basi più corrispondenti alla realtà, con risultati che riducono la compressione a valle ed escludono tensione a monte, è qui opportuno riassumerli sinteticamente onde porre in evidenza ciò che vi è di irreale nelle premesse e nelle deduzioni.
Nella prima ipotesi si suppone che la roccia incuneata formi solidalmente corpo con la muratura - come fosse vera e propria muratura - e così si ottiene alla base dei piloni 7, 8, un carico massimo di compressione di kg. 13,4 per cmq. Nel secondo calcolo, variando la prima ipotesi, viene separata idealmente la porzione di roccia e, prescindendo da essa, si ottiene una compressione massima di kg. 15,6 per cmq. nel pilone 7 e di kg. 18,6 nel pilone 8. Infine nell'ultima ipotesi la perizia del Tribunale suppone lo stacco completo della muratura dal dosso di roccia, ed una vena d'acqua continua fluente fra la muratura e la roccia.
E' questa l'ipotesi catastrofica che conduce a conclusioni di rovesciamento e crollo. Ma questa ipotesi non regge quando la si confronti con la realtà dei fatti.
La Tavola V allegata alla perizia del Tribunale mostra nelle sezioni della rovina ai piloni 7, 8, 9 che la muratura è rimasta, anche per grossi spessori, aderente al dosso di roccia, nonostante gli eccezionali sforzi di tensione subiti durante il crollo. L'adesione fu per lo meno pari a quella fra la malta e le pietre della muratura e tanto forte, da superare le resistenze interne di scorrimento e di tensione sviluppate dalla muratura durante la rovina.
L'ipotesi di stacco della muratura dal dosso di roccia è dunque esclusa nettamente dalla realtà del fatto, ed esclusa rimane per conseguenza l'ipotesi della sottopressione di vena continua fluente fra muratura e roccia.
Nella precedente Parte Seconda di questa relazione si dimostra in quale misura debbano essere invece contenute le ipotesi di sottopressioni, in relazione alle reali possibilità ed all'esperienza; ed il calcolo che ne deriva conferma la stabilità della diga.
Del resto le perdite, d'acqua non erano tali da dimostrare vera una ipotesi di vena continua. I periti del Tribunale in base alla testimonianza del guardiano, determinarono una perdita totale di litri 105 al minuto secondo fra tracimazioni e travenazioni, ossia circa mezzo litro per metro di lunghezza di diga. Ora alla diga del Vannino (vedasi conferenza Ganassini) la perdita massima fu determinata in 35 litri al minuto secondo; ossia ancora mezzo litro per metro di lunghezza di diga. E si noti che l'altezza d'acqua al Vannino è circa la metà di quella che era al Gleno a ridosso della parte centrale della diga. E potremmo citare dighe di recente costruzione nelle nostre Alpi, che mostrano perdite fino ad un litro per metro di diga.
L'ultima ipotesi è dunque eliminata dalla realtà dei fatti, come risultano dai rilievi degli stessi periti del Tribunale e dalle deposizioni dei testi. Non occorre aggiungere che se con simili ipotesi, si verificasse la stabilità di tutte le dighe le quali perdono mezzo litro d'acqua al secondo per metro (e sono molte), nessuna risulterebbe stabile. (Vedasi ancora la Parte Seconda della presente Relazione).
Rimangono le prime ipotesi. Per quanto il secondo calcolo trascuri la solidale resistenza del dosso di roccia con la muratura, ne discutiamo i risultati, mettendoli in relazione con quelli delle prove al Laboratorio del Politecnico di Milano.
I periti del Tribunale trovano con la seconda ipotesi una compressione massima di 18 kg. per cmq., d'altra parte il campione prelevato dal plateone di calcestruzzo (che per m. 2,70 formava la parte superiore del tampone), ha dato una resistenza alla rottura di kg. 105 per cmq., nonostante il degrado portatovi dallo scalpellamento e dagli urti del trasporto. Siamo dunque ben superiori ai 18 kg. per cmq., e verifichiamo nel plateone un rapporto di sicurezza di circa 6 volte: perciò non è nel plateone che potrebbe al caso aver avuto inizio la rottura per compressione.
Dalla sottostante muratura di pietrame con malta di calce e cemento, non era possibile prelevare campioni: manca dunque il dato esatto della sua resistenza alla rottura per compressione, ed il giudizio è affidato all'apprezzamento di ciò che mostrano le rovine e di ciò che si conosce riguardo alla resistenza di questo tipo di muratura. Attualmente la malta si presenta dura e compatta e la muratura nelle faccie in vista (galleria di scarico) non presenta traccie di quegli interni scorrimenti che precedono ed accompagnano la rottura per compressione. Una specie di prova di resistenza venne subita da un masso di muratura di pietrame con blocchi di porfirite e malta di cemento e calce e del volume di circa tre metri cubi che si trova nel letto del Dezzo a monte del paese di Dezzo (Allegato N. 43). Esso mostra i blocchi di porfirite ben uniti alla malta: non si ritiene che esso potesse appartenere alle murature di qualche edificio a valle della diga perchè si esclude che vi fosse muratura simile altrove che nel tampone della diga; esso è caduto per i salti del Povo, ha rotolato colla torbida per qualche centinaio di metri e non si è sfasciato nei suoi elementi. Ciò dimostra ad ogni modo che la coesione fra malta e pietrame in murature di questa specie può risultare ottima e che la malta non rimane plastica, ma fa un'ottima e completa presa.
Ma che la malta di calce del Gleno dovesse fare buona presa anche fuori dal contatto dell'aria, ci è ufficialmente confermato dalle prove che il Viganò fece eseguire il 1920 nel Laboratorio del Politecnico di Milano. Alle dette prove la malta di calce e sabbia del Gleno mostra una presa relativamente rapida (dopo 7 giorni dà 19 kg. per cmq. di carico di rottura) e, quanto alla resistenza, dopo 28 giorni il .Direttore del Laboratorio misura un carico di rottura di 35 kg. al cmq,; otte-nuto mantenendo il provino nell'acqua fuori dal contatto dell'aria. Torna qui opportuno ricordare che il Decreto Ministeriale IO gen-naio 1907 prescrive per la malta di calce idraulica ordinaria un carico di rottura dopo 28 giorni, di 25 kg. per cmq. La malta della calce del Gleno superava dunque le prescrizioni Ministeriali. Si aggiunga poi che la malta del tampone conteneva una parte di cemento per due di calce, ed aveva quindi una presa ed una resistenza migliori di quella della malta di sola calce, provata al Politecnico di Milano.
I periti del Tribunale aggiungono che la sabbia adoperata al Gleno per formare le malte era di pessima qualità; ma interviene ancora nel 1920 il Prof. Revere del citato Laboratorio a comunicare al signor Viganò che le malte formate colla sabbia adoperata al Gleno hanno una resistenza superiore di quella delle malte ottenute colla sabbia, tipo normale, del Ticino.
I periti del Tribunale dicono anche che la muratura di pietrame del tampone, pur ammettendo fosse di buona malta, non poteva resistere ad un carico di 18 kg. per cmq. Orbene il Regolamento del Ministero Prussiano dei Lavori Pubblici 31 gennaio 1910, ammette per la muratura di pietrame con malta contenente una parte di cemento per due di calce un carico di sicurezza di 15 kg. per cmq.: e ciò significa che il carico di rottura è più volte superiore ai 15 ed anche ai 18 kg. per cmq.
Alla stregua di questi fatti e rilievi, risulta infondata l'ipotesi della plasticità della muratura del tampone con la quale i signori periti del Tribunale giustificano le loro conclusioni. La verità è che l'ipotesi derivava soltanto dalle dicerie sorte, come sempre accade, dalla generale commozione, allo scopo di trovare in qualsiasi modo un responsabile, dicerie che si fondavano su giudizi avventati e di bocca in bocca si ingrossavano a fantasia, coll'aiuto di coloro che, licenziati o puniti, durante i lavori, coglievano l'occasione propizia alla loro temeraria vendetta.
Eppure bastava riflettere che la muratura del tampone era in condizioni di lavoro da circa due anni. Man mano che la diga si alzò, nel 1922 e nel 1923, si utilizzò un crescente immagazzinamento nel lago per le centrali già in funzione, raggiungendo livelli di 10 m., 20 m., fino al livello massimo durante quarantasei giorni prima del crollo (Allegato N. 19), cosicchè la pressione specifica unitaria nella muratura del tampone andò crescendo gradatamente nel tempo di due anni fino a raggiungere i 13 od i 18 kg. per cmq., a seconda delle varie ipotesi, ed a questo limite fu sottoposta per quarantasei giorni; e durante tutto questo tempo, nel quale secondo i Periti sarebbe stata plastica ed al limite di rottura, la muratura non presentò sulle faccie, visibili per vasta superficie esternamente, alcun segno di cedimenti, di fratture, di scorrimenti plastici interni, infine di fatica. E ciò è confermato dagli stessi periti del Tribunale, riconoscendo essi che il crollo non fu preceduto da alcun segno d'allarme. L'ipotesi della insufficiente resistenza della muratura non può dunque reggersi: tutto quanto si può dedurre da quei calcoli è che non furono mai raggiunte, a lago pieno, condizioni di lavoro interno che potessero determinare la rottura della diga ed il crollo, e perciò la causa del crollo va ricercata all'infuori del corpo stesso della diga: in altre parole, in condizioni di roccia di fondazione normali, la diga era stabile anche nella sua parte centrale.
Veniamo ora a quella parte del lavoro dei Periti del Tribunale che riguarda la roccia sulla quale posava la diga.

CAPITOLO UNDICESIMO.
La roccia di fondazione del tampone in relazione ai movimenti sismici o di locale assestamento - Conclusioni della Parte Terza.

La perizia del Tribunale, espone in due brevi relazioni del Prof. Augusto Stella ed una appendice dei signori Professori Danusso e Ganassini, l'esame dei quesiti riguardanti le condizioni geologiche della base della diga e gli effetti geofisici e sismici, venendo a conclusioni del tutto negative.
Infatti la perizia del Tribunale dice:
"E' da escludersi in base alle tassative conclusioni del Prof. Augusto Stella, che il terreno di appoggio della diga non si presentasse adatto alle fondazioni dello sbarramento"; e, nella lettera 30 maggio 1924 per quanto riguarda l'effetto dei microsismi, dicono i signori periti del Tribunale: "In realtà nel mese di novembre 1923 si ebbero negli osservatori geofisici delle registrazioni di microsismi di importanza limitata e tali da non potersi considerare come scosse telluriche. Di tali vibrazioni della crosta terrestre, paragonabili come ordine di grandezza alle oscillazioni che può produrre un ordinario veicolo percorrente una strada, se ne registrano quotidianamente. Per quanto concerne la Parte Seconda e cioè l'influenza che tali microsismi od altre cause di natura geofisica possono avere avuto sopra la roccia di fondazione della diga, si conferma ancora la conclusione già delineata in precedenza, e cioè che i margini di sicurezza ordinari delle normali costruzioni comprendono largamente ogni effetto che alle suddette influenze si possa attribuire. Se così non fosse ogni costruzione comune sarebbe continuamente esposta a rovina".
Il periodo che chiude la relazione del Prof. Stella è d'altra parte assoluto nell'escludere "ogni dipendenza di causa ed effetto fra il crollo del 1° dicembre 1923 e le condizioni geologiche del terreno, da ritenersi buone sia nell'area del serbatoio, sia nella zona di imbasamento della diga di ritenuta".
Però le considerazioni che precedono questo periodo finale non sono altrettanto decise. Il Prof. Stella rileva infatti che nelle rocce porfiriche formanti la base della diga, ed elevantesi dal fondo valle come muraglie, ci sono qua e là dei peli di stacco specialmente secondo un verso subverticale e trasversale alla valle, "ma quelli però appena evidenti come litoclasi all'affioramento, si chiudono rapidamente contro monte parzialmente riempiti e ricementati da vene quarzo-ideritiche.
A nostro parere l'errore di deduzione dalla causa all'effetto sta in quella frase: "i margini di sicurezza ordinari delle normali costruzioni comprendono largamente ogni effetto che alle suddette inluenze si possa attribuire" Infatti l'affermazione dei periti del Tribunale è vera per l'effetto di microsismi, solo in quanto si voglia attribuire ad uno di essi la rottura istantanea completa della parte centrale della diga e la sua rovina; ma non è più vera, e lo riconosceranno anche i signori periti del Tribunale, se con la parola "effetto" si intende solo il parziale, continuo degrado alla base della muratura sulla roccia in forma di più o meno vasti piani di frattura, e ciò in corrispondenza alle nuove fratture o litoclasi che al ripetersi di quei microsismi, venivano a manifestarsi nella porfirite. Infatti un esame più completo dei peli di stacco avrebbe condotto il Prof. Stella alle seguenti constatazioni (Allegati N. 42, 44, 45, 46):
1° Che detti peli di stacco si rilevano sia a valle che a monte della diga, e formano un fascio subverticale e trasversale, senza soluzione di continuità, dall'una all'altra parete della valle, precisamente dove la roccia porfirica strapiombante sul fondo valle, era premuta sui fianchi ed a monte dai saldi banconi delle arenarie siliciose e conglomerati quarzosi, come un cuneo stretto in un enorme morsa. In tali condizioni è ovvio concludere che la roccia porfirica doveva fessurarsi profondamente per poter assumere sotto le enormi pressioni circostanti nuovi stati di assestamento.
2° Che la superficie di frattura sul tampone, così come si presenta ora alla base del tampone e nella vòlta della galleria di scarico, segue grossolanamente il piano e l'andamento più evidente fra dette fratture di roccia.
3° Che i litoclasi, appena evidenti sull'affioramento, hanno larghezze che affiorando arrivano fino a circa 40 cm. e qualche così detto pelo di stacco è rilevabile ancora a profondità di parecchi metri entro la roccia con larghezze di qualche millimetro (galleria di presa). Cosicchè è ovvio definirli come vere e proprie fratture interessanti la muraglia porfirica per grande profondità.
4° Che nelle maggiori di dette fratture, là dove vi è il riempimento con quarzosiderite, questa è rotta e staccata su una o entrambe le pareti della vena con apparenza di fatto recente.
E' questo un particolare di grande importanza, il quale rivela che uno scorrimento non lento, ma rapido, quasi istantaneo, non infinitesimo, ma di spazio così notevole da misurarsi a vista, non insensibile come le oscillazioni prodotte da un ordinario veicolo, ma così potente da rompere e staccare riempimenti durissimi e fortemente cementati alle pareti, è di recente avvenuto.
5° Dove la roccia sotto il tampone rimase scoperta per il crollo, le fratture di roccia sono in genere riempite di malta, eccetto qualcuna che appare a bordi netti e puliti senza traccia di malta neanche in profondità. Ciò dimostra che queste ultime fratture si formarono dopo la costruzione del tampone ed a conferma di ciò, venne rilevata una visibilissima screpolatura della muratura del tampone rimasta aderente alla roccia dopo il crollo.
E' così dimostrato che fratture nella roccia sotto il tampone si formarono dopo la costruzione della diga e che determinarono nella muratura stessa fratture in continuazione ad esse.
A queste conclusioni sarebbe certo venuto il Prof. Stella se l'esame fosse stato più dettagliato e completo, e se non fosse stato deviato dalla considerazione che fughe d'acqua entro roccia non furono osservate sotto il tampone della diga, al che si deve obbiettare che le testimonianze al riguardo sono incerte, mentre alcune fotografie più probanti dimostrerebbero l'opposto (Allegato N. 48) e d'altra parte le infiltrazioni in roccia possono scendere fino a grandi profondità, e riescire all'esterno nel fondo valle.
I detti rilievi indicano in modo certo quali effetti potessero determinare nel tampone della diga scorrimenti i quali hanno talora raggiunto potenza sufficiente a rompere i cementi quarzosi più duri e resistenti che la natura possa preparare.
Infatti il tampone aderiva inferiormente alla superficie della roccia e la adesione era aumentata da corrugamenti e formava superiormente un unico corpo colla parte centrale della diga trattenuta ai lati dalle armature metalliche delle vòlte che la legavano colle pile-spalle. In tali condizioni uno scorrimento delle rocce di base, doveva ineluttabilmente trascinare verso valle la parte inferiore del tampone determinando in esso una frattura declive, da monte a valle, così come infatti si rileva. E ciò sarebbe accaduto anche se la muratura del tampone fosse stata delle più salde, poichè, non poteva certo avere resistenza maggiore delle rocce porfiriche e delle quarziti più dure fortissimamente aderenti a pareti scabrose di fratture in roccia.
Ma che infine la potenza delle oscillazioni sismiche e di assestamento potesse raggiungere valore più elevato di quella corrispondente alle oscillazioni prodotte da un ordinario veicolo, noi troviamo sicura conferma nelle osservazioni sperimentali fatte da un illustre studioso di sismotectonica, Ottave Mengel, basandosi su sismi avvenuti nel 1922 nella parte orientale dei Pirenei. Tali osservazioni dall'agosto al dicembre 1922, sono anteriori di un anno al crollo del Gleno; non vi può quindi essere dubbio che questo avvenimento si colleghi in qualche modo alle deduzioni del Mengel, e neanche potevano essere note al compianto Prof. Taramelli, quando nel 1920 dava parere favorevole per la prescelta sede della diga. Forse riescono nuove anche al Prof. Stella, per quanto grande sia la sua coltura in questo ordine di studi e di ricerche, poichè non è possibile conoscere tutto quanto si viene studiando e pubblicando di sismotectonica, scienza nascente che studia l'influenza della struttura del suolo sull'effetto dei sismi e sul modo di propagarsi delle loro vibrazioni. Noi riteniamo che ad ogni modo egli troverà assai interessanti le constatazioni di Mengel, poichè da esse risulta provato che le risonanze sismiche si riproducono là dove esiste una brusca soluzione di continuità nel rilievo o nella composizione di diverse rocce od elementi in contatto, per esempio lenti porfiriche incluse in altre formazioni geologiche, dossi rocciosi strapiombanti su acqua, condizioni tutte che si verificano per la base rocciosa sulla quale si è costruita la parte centrale della diga del Gleno.
Ma vi è di più: dalle osservazioni del Mengel riguardo "Alle origini e cause probabili dei sismi al nord dei Pirenei o risulta che il luogo dell'origine ipocentrica di tali sismi risiede in rocce d'origine vulcanica racchiuse fra strati di banconi calcari: che carattere particolare di tali formazioni è, sia a nord che a sud dei Pirenei, l'instabilità, ossia il succedersi di assestamenti che dànno luogo a sismi locali d'intensità e diffusione più o meno vasti. Ed è importante notare che tali condizioni orologiche si riscontrano appunto nel dicco di porfirite racchiuso fra banconi calcari che formò la sede centrale della diga. Non sarà quindi eccessivo dedurne che tale dicco di porfirite possa essere centro ed origine di sismi della valle del Povo (Allegato N. 55).
Per quanto riguarda poi i sintomi che si manifestarono al momento del crollo, noi potremmo trovare una conferma nella deposizione del teste Morzenti, guardiano della diga. Egli infatti dice: "Mentre passavo sulla passerella della diga ebbi l'impressione che vi fosse un movimento sussultorio e che io fossi quasi spinto a piegare sul lato destro". Questo movimento sussultorio potrebbe essere portato a prova di una forte risonanza sismica.
Ma noi troviamo la deposizione Morzenti in palese contraddizione con quanto segue:
E' provato dalle nostre ricerche che il cambiamento nella produzione e distribuzione d'energia dal regime di notte a quello di giorno, succedeva regolarmente alle otto del mattino, anzichè alle sette; l'avviso telefonico veniva dato prima, perchè il guardiano fosse sicuramente pronto a fare la manovra di maggior apertura della valvola per l'ora normale delle otto. Si è anche constatato dopo il crollo che la valvola di presa conservava il grado di apertura del regime notturno (Allegato N. 49, testimonianza Ducci). Non è dunque vero che il Morzenti abbia aperta la valvola alle sette per la maggior presa diurna, ed allora è probabilmente altrettanto non vera la sua passeggiata sulla passerella, oppure se vi andò non fu per aprire la valvola di presa.
Noi rinunciamo perciò a questa fortuita conferma di una vibrazione sussultoria sismica al momento del crollo; noi non diamo parvenza di realtà ad ipotesi non fondate su reali accertamenti. Fra la realtà e l'ipotesi vi è uno spazio che non può essere colmato da dubbie testimonianze; ci limitiamo perciò a quelle deduzioni che risultano incontrovertibili, perchè basate su rilievi e su fatti, sempre e da chiunque controllabili.
E queste deduzioni derivano in modo evidente e logico da quanto abbiamo prima esposto: cioè la muratura del tampone posava su un dicco di roccia porfiroide nel quale un processo di progressivo e continuo assestamento ha determinato prima della costruzione, durante questa, ed in seguito, fratture secondo piani di scorrimento subverticali declivi ed attraversanti, dalla sinistra alla destra del Povo, tutta la base centrale della diga. Questo assestamento ha provocato analoghe fratture nel tampone, non visibili nel paramento a valle perchè interne nella base e nella massa di quella muratura.
Così, in modo subdolo, la natura dei luoghi ha preparato le condizioni più favorevoli alla rovina della diga; così, come accade per argini potenti che la piena abbatte quando lentamente la natura ne abbia indebolita la base. La mattina del 1° dicembre 1923 una causa istantanea, determinata dallo stesso assestamento delle rocce o comunque esterna alla diga, estese quella frattura a tutto lo spessore del tampone fino alla base dei piloni centrali. Sotto la pressione di base dei detti piloni dovette staccarsi la parte anteriore del tampone e dietro ad essa cedere i piloni e quindi aprirsi alle imposte le vòlte che si appoggiavano ad essi, e sotto la spinta dell'acqua, tutto rovesciarsi a valle.

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Concludendo:
1° La stabilità della diga del Gleno, per quanto riguarda i piloni e le vòlte che ad essi si appoggiavano, era assicurata così come risulta dai calcoli e dalle stesse conclusioni dei periti del Tribunale.
2° La stabilità della diga, fatto riferimento ai carichi massimi risultanti dai calcoli, in quanto dipendeva dalle dimensioni e dalla resistenza della muratura del tampone, era pure assicurata; ciò risulta dai certificati di prova delle malte del Laboratorio di resistenza dei materiali del R. Istituto Tecnico di Milano, dalla normale resistenza alla compressione di simili murature di pietrame, e dalle constatazioni su ciò che rimane di detta muratura.
3° I fenomeni sismotectonici e geofisici della roccia su cui posava la parte centrale della diga, rilevati ora dall'esame delle parti scoperte, confermati da recenti studi su simili condizioni di fatto, hanno determinato nella muratura del tampone condizioni interne di degrado tali, che una causa di natura istantanea, determinata dallo stesso assestamento delle rocce o comunque esterna alla diga, e fors'anche di non grande potenza, ha potuto provocare il cedimento a valle dei piloni centrali, e conseguentemente, la loro rovina.

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