Concetta Reali nata Giarelli, classe 1895, ostetrica, Darfo.

"Mi trovavo nella mia casa che sorgeva dove attualmente sorge la caserma dei Carabinieri, a Corna. Guardando dalla attuale via Lorenzetti verso la montagna, a destra di casa mia vi era un cinema con annesso caffé; era retta da una famiglia originaria di Lovere, certi Vecchiati. Vi abitavano, oltre ai genitori, un bambino e la domestica.
Mancava un quarto alle otto. Piovigginava: una pioggia lieve lieve, filiforme. Ero al piano superiore e stavo facendo i consueti mestieri di casa quando vidi la signora Vecchiati venire verso casa mia con un cartoccio in mano: dal colore della carta, che era la solita usata dai bottegai, ricordo bene, si doveva trattare di un cartoccio contenente zucchero o caffè. Mi affacciai alla finestra: "Dove va', signora?" le chiesi; ma la domanda gliela rivolsi, forse, più con i gesti che con la voce. La signora aveva iniziato a fuggire, di corsa, e mi faceva segno che qualcosa stava accadendo, là, lassù, verso il Dezzo.
Scesi al piano terra di corsa e dissi a mia suocera: "Scappiamo, scappiamo!". Uscimmo tutt'e due e corremmo fino all'altezza della attuale Posta, quando sentimmo la voce di mio cognato che ci chiamava: "Dove andate? Saliamo di sopra che l'acqua non sarà molta!". Tornammo sui nostri passi: ricordo che le strade, per quell'attimo, erano ancora asciutte. Salimmo sul solaio di casa nostra. Ci volle un colloquio concitato e deciso per convincere il sarto che lavorava in una stanza di casa nostra a salire con noi: "Ho qui molta stoffa che non è mia, è dei clienti! Che cosa diranno?". "Ma vada in malora la roba! Salviamoci!".
L'acqua già batteva contro il muro della casa di Corsi Battista. Dai finestrini del solaio chiamavamo la signora Maria, moglie del gerente del cinema, la stessa che avevo visto correre in cerca di rifugio: era ai piani superiori di casa sua e non si affacciò nonostante i nostri richiami. Vedemmo le sedie del cinema uscire violentemente dalle porte. Un attimo, un disastro.
Mia suocera recitava il rosario inginocchiata. I due uomini presenti guardavano insistentemente verso le Ferriere. Mio cognato Attilio Reali (di Fortunato) sollevava verso il cielo il suo figlioletto Luciano di 11 mesi: "Dio, salvami almeno questo mio figlio". Il sarto s'era levato le scarpe, forse con l'intenzione di salvarsi in seguito a nuoto; ma improvvisamente mezza casa cadde e non lo vedemmo più. Noi restammo sulla metà casa verso il cinema e chiamavamo ancora la signora Maria.
Guardando verso la metà casa distrutta, mia cognata, vedendo ancora la stufa in cucina, disse: "Meno male che per stasera avremo ancora la stufa per far da mangiare! Ci fermeremo anche noi da te". Questi miei parenti abitavano in una casa nella zona ove oggi sorge il cinema Garden. Appena finita questa frase, detta forse per farci coraggio, un urto violento, una scossa tremenda e tutti cademmo nell'acqua alta. La casa era ormai caduta del tutto.
All'inizio delle mie peripezie fui colpita - ricordo come fosse oggi - da un chiodo infisso in un'asse: mi ferì abbastanza gravemente proprio al colmo del capo (ancora oggi ne porto la cicatrice) poi so di essermi aggrappata con la forza della disperazione al braccio di mio cognato Attilio. Lo riconobbi perché portava una camicia inconfondibile: a strisce bianche e nere. Per un lungo tratto inoltre, con il braccio sinistro, m'ero legata strettamente o ad una grossa asse o ad un tronco.
La ferita alla testa non mi aveva causato uno svenimento. Ricordo che quando fui nelle vicinanze di via Albera (dove abitava una mia sorella), con uno strattone mi tolsi il fazzoletto bianco e rosso (caratteristico, di seta casalinga di quei lontani tempi) e gridai: "Carmela, Carmela". Sentivo il treno che fischiava fortemente: "Fiit! Fiit! Fiit!" e le campane che suonavano a martello, e confusamente so che pensavo: "Adesso resto sotto il treno e sono sicura di morire...". Poi svenni e quel che avvenne non so.
Mi trovarono avvinghiata ad un palo di sostegno della vite, nelle campagne di Gianico, non lontano dal fiume Oglio.
Ero rinvenuta. Avevo paura a staccarmi. Quel palo era la salvezza. Dopo una lunga attesa vennero due uomini. Uno di essi aveva una folta barba e mi impauriva più di ogni cosa... Perché? Perché quand'ero più giovane, mio cognato Battista Abondio, che negoziava di bestiame e spesse volte si recava in Val di Scalve, raccontava alle sue bambine, me presente: "In Val di Scalve dicono che il nostro cimitero, bambine mie, sarà il lago d'Iseo. La diga è malcostruita e cadrà: tutti lassù lo dicono. E dicono che queste cose capitano solo per l'egoismo dei soldi. L'egoismo dei soldi trasformerà in cimitero il nostro lago". Questo racconto mi impressionava anche se ero più che ventenne e, chissà per quali misteriose ragioni, lo legavo al malefico intervento di uomini barbuti, quasi selvaggi.
I due uomini mi staccarono a forza mentre io chiamavo: "Mario! Marco!", il nome di mio marito. (Mi ero sposata solamente tre mesi prima). Faticarono non poco a portarmi fin sulla strada provinciale: allora ero pesante. Lì il signor Felappi, padre del geometra Lorenzo che abita qui a Darfo, con un barroccio dalle ruote alte, mi portò all'ospedale di Darfo.
I due uomini insistevano: "Chi è lei? E' della Valle di Scalve?" e poi, vedendo che non rispondevo: "Signore, salvate almeno la sua anima". Il signor Felappi, presso il quale mi ero recata la sera precedente per assistere sua moglie per un parto, non mi riconobbe essendo tutta impantanata. L'unica cosa che ancora avevo indosso erano le mutande.
In fondo al viale dell'ospedale alcune donne spinsero sul barroccio una bambina, che mi porse una bottiglietta di grappa da bere. Che caso! Questa bambina la ritrovai a Torino, fattasi suora, proprio nel giorno in cui veniva consacrato sacerdote mio figlio padre Fortunato, Missionario della Consolata.
Anche in ospedale, pur essendo io l'ostetrica comunale, per un bel po' nessuno mi riconobbe. Mi misero in una vasca di acqua calda. Quando mi si sciolse il nodo alla gola, dissi: "Ma suor Angela, non mi riconosce?". La suora fuggì via pensando che delirassi. e andò a chiamare il dott. Gheza, che venne da me immediatamente. Qualche domanda e risposta e, fra esclamazioni di meraviglia, mi riconobbero.
Per fortuna, mio marito e mio cognato Carmelo Angelo erano andati al consueto lavoro nel negozio di calzoleria posto davanti alla vecchia chiesa di Corna. Anzi, come mi dissero, per un momento non si avvidero del disastro che incombeva su Corna; poi. richiamati dal Parroco, salirono sul campanile della vecchia chiesa: da lì videro che la nostra casa era stata inghiottita dalle acque.
La violenza delle acque fu tale che l'unica a sopravvivere fui io: mio cognato Reali Attilio fu ritrovato nel lago d'Iseo; mia cognata Bentoglio Luigia all'estremo opposto, in località Isola: del figlioletto Luciano e della suocera non vennero ricuperate le salme.
Come vennero distribuiti i sussidi? Vennero distribuiti in fretta e furia e senza molto criterio, non certo con equità. Chi era in affitto e non proprietario ebbe di più. La povera gente aveva da pensare ai propri tristi casi; i trafficoni ebbero buon gioco nel far man bassa dei sussidi. Se questi fossero stati distribuiti con più giustizia le famiglie povere avrebbero potuto risorgere con minori sacrifici.
Noi avemmo quattro morti. I danni morali, è chiaro, nessuno poteva lenirli".
La famiglia Reali ebbe 4 vittime: Ghizzo Idalia in Reali, anni 61, suocera della testimone;
Reali Attilio fu Fortunato, anni 28, cognato della testimone;
Bentoglio Luigia in Reali, 21 anni, cognata della testimone;
Reali Luciuno di Attilio, mesi 11, nipote della testimone.

(Tratto dal libro "Il disastro del Gleno" di G. Sebastiano Pedersoli - Edizione riveduta in occasione del 75° anniversario - Copyright Edizioni Toroselle di Pedersoli dott. Giacomo)

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