Giacomo Dossi. Data memoranda 1 Dicembre 1923

Mi sforsero rievocare tragico mattino che tanti lutti e rovine seminò nel nostro piccolo paese.
Persino il cielo piangeva in quel tragico novembre tutto il mese a piovuto dirottamente, tanto che il fiume s’era ingrossato da far paura, era voce comune sulla bocca di tutti, cadra le mura famose costruite con tanta incoscensa ma chi poteva saperlo, avevamo qui la nostra casa. Inisiero questo doloroso dramma vissuto, lavoravo al forno in quel lontano 1 dicembre 1923, la sera antecedente pioveva a dirotto, mi portai al mio lavoro, lavorai dalle 10 fino alle 6 del mattino, venne il compagno Bettineschi Flaminio a sostituirmi, perito in quella stessa aurora di morte, mi portai a casa, consumata un po di colazione andai a letto. Mia moglie, mia povera mamma, col mio tenero bambino di 3 anni si recarono alla messa, poteva essere tre minuti quando mia moglie tornata dalla messa si recò in stalla a darci il mangiare al maiale, nella casa dove ora dimora la famiglia Merli, e in cucina di detta casa cera il mio piccolo Ambrogio tornato dalla chiesa volle andare assieme alle 3 sorelle della defunta Cesarina pure assieme a loro si univa pure la mamma di Bendotti Pierina, a la assieme giocavano assieme al bambino quando mia moglie ando a chiamarlo per portarlo a casa per la colazione, non volle ubbidire io sto qui colle mie cugine, cera anche a queste quattro donne pure la Maria mia cugina tuttora vivente, andiamo Ambrogio ci disse ti porto io fu la sua salvezza, giunte a meta piazza videro le case crollare e avansarsi impetuoso il grande uragano, non fecero a tempo di fare due passi ad avvizzare le quattro infelici creature, fecero a tempo appena di imboccare la porta d’ingresso e salire i gradini che fulmineo travolse cose e persone nulla risparmiando, mia moglie dalle scale gridava il Gleno, nel dormiveglia udii tale grido guardai dalla finestra vidi dallalto cadere il fuoco un grande boato sara stato il momento forse che l’acqua penetrata nel forno provocò il terribile schianto mandando in alto i carboni accesi, rimasi impietrito, qui dissi fra me non e il Gleno è la fine del mondo non avevo la forsa la capacità di vestirmi mi misi i calsoni a piedi scalzi giu per le scale di sotto cera la Maria con in braccio il bambino non capace di muoversi tanto lo spavento, presi il bambino uscimmo dalla porta di dietro si durò fatica a passare quel piccolo spazio ingombrato di legni, travi, carri, acqua pantano, giunti in cima agli orti una scena commovente si presentava con voci strazianti chi chiamava il suo bambino, chi la bambina, chi la mamma, erano i superstiti della grande sciagura, mia moglie ma il nostro bambino, un figliolino di pochi mesi affidato alla nonna materna da parecchi giorni per svessarlo dalla mamma, sara morto il nostro Gino e la continuava con voci strazianti di portarmi a vedere mi diede braccio un altro uomo ci portammo alla casa dove dimora la cognata entrammo nella stalla un metro di acqua e pantano la culla che aleggiava sopra vuota qui gridai sotto i piedi in mezzo a questo pantano calpestiamo le nostre creature due o tre mucche che si vedevano appena le corna due o tre maiali alla finestra ancora vivi, insomma era una visione raccapriciante, cercammo con angoscia ma non trovammo nulla, ma dove sono la casa ancora rimasta, lo crederesti andò a finire povera nonna in una stalla nella casa vicino alla chiesa di proprietà dei Bettineschi, e in detta stalla cercava il suo scampo cera un mulo li dentro, l’acqua abbatteva la porta scendeva dalle scale ovunque acqua e lei terorrisata mentre l’acqua saliva montò sopra la mangiatoia di detto animale e la alsava il bambino fra le braccia fin sotto il volto, lo trovammo dopo un ora forse due d’angosciose ricerche ancor vivi, miracolo gridammo il nostro bambino sembrava un morticino estratto dal sepolcro, cominciava a balbettare ma dopo per un mese non dette più segno di vita, sulla primavera mi morì forse a causa di questo spavento, la nonna anch’essa e facile immaginarlo in che condizioni si trovava quando trovata.
E la mia mamma, povera mamma, dopo sentita la messa si prepara a confessarsi quando udì un terribile schianto, si precipitò fuori di chiesa fece alcuni passi verso casa, quando vide con orrore uomini e donne spinti d’una forsa sovrumana avansarsi a lei, s’immaginò che fosse scoppiato un incendio, i miei bruceranno vivi in casa quando giunta sulla soglia della casa Ghesa fu sbattuta entro la stanza, il defunto Pietro Ghesa credendo fosse sua mamma lo portò di alcuni gradini della scala e fu salva ma in quale stato poverina, forse le persone che vide stracinate dalla inaudita forsa della corrente d’aria e poi travolti, mia sorella ora defunta quando venne a conoscienza del terribile dramma, residente a Lizzola da tanti anni sposata colà, fece la montagna della Manina con tanta neve una povera donna sola con l’angoscia nel cuore per i suoi cari arrivò al fiume Povo e la un corpo di guardia non lasciano passare, non ci sarà barriere rispose a questi di fermarmi, si portò fino ad Azzone e discese per i sentieri ci abbraciammo in dirotto pianto, l’amore lo spinse a tanto.
Questo e il mio diario di quel mattino tragico di morte e di angoscie che non a nome, fu la mano di Dio se noi ignoriamo i suoi decreti, ma al nostro pensare, ma gli uomini che dirigevano tale lavoro nel loro cuore non pulsava un senso d’umanita, non pensavano che sotto questo sbarramento d’acqua non cera una mandra di bufali, ma bensi popoli al par di loro che le loro vite erano sacre poveri vecchi che forse sognavano una morte tranquilla assistiti dei suoi cari, poveri bambini che sognavano nel loro letticino caldo sogni di innocenza, povere mamme che forse attendevano una nuova gioia, la loro culla i loro giacigli gli servi di tomba travolti da immane forsa sbattuti scaraventati come foglie macciullati pesti come canapa sotto il maglio.
La diga del Gleno il mattino tragico l’aurora della morte rimarra indelebile al cuore degli abitanti della valle specialmento il popolo di Dezzo il più provato da tale sciagura, l’ordigno di morte, il colosso costruito coi piedi d’argilla diede risultati ben amari, i criminali che dirigevano tale lavoro possono essere fieri d’aver preparato un tale tradimento, tutto era diretto da persone fuori valle, nessuna persona di qui competenti, additati gli operai locali con nomi piu vili, come bestie da soma pecoroni, rozzi, fannulloni e via dicendo, e caso alzavano il capo e dire i suoi diritti, premiati col manganello olio di ricino.

(Tratto dal libro "Da Collere a Colere" a cura di Angelo Bendotti - Amministrazione Comunale di Colere - Associazione editoriale: Il Filo di Arianna)

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