Il mantello dì Cebète
Commensali
a Pietro Paolo Trompeo
Le patatine della Nannò
da:Il mantello di Cebète Editrice La
Mandragora
La Nannò, il
mio cane (anche se femmina devo dire così, cagna non mi piace e non le si
addice), la mia unica e consueta compagna di mensa. Avevo attraversato l'Alpe,
eravamo affamati tutti due e sul mezzogiorno capitai davanti a un albergo di
lusso. Molti tavolini e colorati ombrelloni al di fuori; qualche damina che a
quell'ora faceva ancora la colazione del mattino: le punte delle dita sottili
giocavano tra cucchiaini coltellini marmellate fettoline di pane e rotolini di
burro e pizzicati quadratini di zucchero; una gamba sull'altra, la caviglia
scoperta, il sandaletto di rete e il piedino nudo si dondolavano all'aria.
Entrai senz'altro nella sala da pranzo. Così com'ero, naturalmente: col sacco
sulle spalle, gli scarponi, e la Nannò al guinzaglio. Camerieri già pronti, in
giacchetta bianca e calzoni neri. "Ahimè", dissi piano, "cara Nannò, facciamoci
coraggio". Adocchiai in un angolo un tavolino che mi parve senza segni di
occupato e a quello mi diressi. Poi, suonato il gong -si era di mezz'agosto, in
piena stagione- giù dalle scale e dalla porta di fuori la sala si riempì.
"Sì, nobilissimo maitre (tutto in nero lui), arrosto di vitello e contorno di
patate". Guardai in giro. C'erano a un tavolo, tra signore e signorine, dei
giovinotti che mi parevano di modi e di vesti assai rozzi e ineleganti:
smanicati, camicie a scacchi, di grosso tessuto, e calzoni a tubo, che
lasciavano scoperti mocassini slabbrati come ciabatte vecchie; e anche mi
parevano poco puliti, almeno da certe codette come di topo, di capelli neri e
unti che avevano dietro la nuca: ma poi capii che anzi erano elegantissimi,
ultimissima moda. E guardavo la mia bestiola. Ferma, seduta sulle zampe di
dietro, eretta sulle snelle zampe davanti, le lunghe orecchie pèndule: un
pointer, bianco e nero come i camerieri. Del suo desiderio di mangiare, degli
odori che pungevano le sue narici umide, non dava altro segno che due fili di
saliva che le scendevano ai lati del muso proteso e attento. Allora io con uno
stuzzicadenti infilai una patatina e gliela porsi. Inghiottì senza masticare; e
restò immota. Seguitai; e seguitò il pasto silenzioso. Credevo che nessuno se ne
fosse accorto. Ma scoprii un'occhiata, benigna, del cameriere, che a un mio
sorriso sorrise. Quando chiesi il conto mi disse: "Una zuppa al cane?" "Ma
sporcherà ". E veramente temevo, così liscio e lustro com'era il pavimento.
"Aspetti". E ritornò con una scodella e una tovaglia di carta. Così la Nannò,
almeno agli occhi del cameriere, riscattò anche me; degli altri non so.
Manara
Valgimigli
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