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Manara Valgimigli

 

|Manara Valgimigli |

   

|40° anniversario |

   

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| Convegno agosto 1970 |

   

| Il Mantello di Cebète |

   

| Valgimigli e Carducci |

   

| Valgimigli e la letteratura |

   

| Giorgio Valgimigli |

 
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VALGIMIGLI E CARDUCCI
Iginio De Luca
(Omaggio a Manara Valgimigli - Quaderni Valgimigliani n.1 a cura di Vanni Scheiwiller)

Nella vita di Manara Valgimigli è veramente decisivo il suo incontro con Giosuè Carducci. Dice lo stesso Valgimigli: "Ci sono due date nella mia vita le quali come poche altre, come pochissime altre, io porto nel cuore, e nel cuore mi resteranno fin che avrò memoria e respiro: una, il 24 gennaio 1896, e l'altra undici anni dopo, il 18 febbraio 1907. Io e i miei compagni, in quei due giorni, ci ritrovammo tutti, disperse anche ombre se c'erano e annullati dissensi e quegli stessi vuoti d'indifferenza o d'incuria che non fanno cercare l'un l'altro. Ci ricercammo, ci ritrovammo, ci riconoscemmo, in lui e per lui".
Il 9 febbraio 1896 Municipio e Università di Bologna festeggiarono il 35° anno dell'insegnamento bolognese del Carducci. Festeggiamenti ufficiali e solenni nella sala maggiore della biblioteca dell'Archiginnasio. Con grande folla e nobilissime parole. Ma per gli scolari la vera festa fu prima, il 24 gennaio. "Ma la festa più nostra, tutta e solamente nostra, fu pochi giorni prima, in iscuola, nella piccola aula consueta, il 24 gennaio, di venerdì, alle tre pomeridiane, ora e giorno di lezione. C'erano con noi, quel giorno, nei nostri ultimi banchi, anche altri più vecchi scolari: c'era il Pascoli, con la sua testa un poco inclinata e il volto grave e mite; c'era Severino, con la sua sorridente malinconia che più spiccava dai piccoli occhi un po' socchiusi e acuti. Quel giorno toccava Dante. Commentò e lesse il canto di Ulisse […]. Finita la lezione, disse poche parole per tutti il nostro compagno Niccolò Rodolico. E gli portò un grosso albo dove noi s'erano raccolte quante più avevamo potuto fotografie di scolari suoi, dagli ultimi ai primi. A celare la commozione si chinò su l'albo, lo aprì, lo sfogliò, si fermava ogni tanto - Oh, guarda, anche lui! Stette un pezzo così. Poi si riprese; si rilevò, e parlò. Le parole che disse, ora sono di tutti ". E qui Valgimigli cita le parole di più ricca umanità del maestro, emblema di tutta una vita. "Della parte della mia vita spesa con voi certo non ho da pentirmi, non ho da farmi rimprovero, se non qualche volta di troppa passione, non mai di cosa che fosse contro la purità della vostra mente e del vostro cuore. Da me non troppe cose certo avrete imparate, ma io ho voluto inspirare me e innalzare voi sempre a questo concetto: di anteporre sempre nella vita... l'essere al parere, il dovere al piacere". Parole accolte da tutti gli scolari con uguale fede. "Parole di verità come disarmata e nuda. Ma anche queste, come le disse, come entrarono in noi e furono e sono nostre, ricchezza e consolazione e beneficio nostri, questo è solo qui, nel cuore nostro, con l'eco di quella sua voce che dentro noi tuttavia si prolunga negli anni di risonanze moltiplicate, e pare si faccia, con gli anni che cadono e con la vita che discende, sempre più distinta e più sacra".
L'altra data (18 febbraio 1907) è quella dei funerali del Carducci. "Io ero alla Spezia, e feci appena in tempo ad arrivare a Bologna, presso la casa sua, che già lo stavano portando giù dalle scale per metterlo sul carro. C'era tanta folla, tante decorazioni, tante tube, tanta brutta gente. Quel pover'uomo che s'era tanto lagnato gli ultimi giorni, e sempre si lagnava, del mal tempo, del cielo cupo, dell'aria nebbiosa, ecco che quel giorno pareva primavera, e tanto più splendevano il cielo limpidissimo e il sole con la molta neve accumulata e distesa. Io da principio mi trovai solo, chè non ebbi voglia di cercare se c'erano, o dove erano, di miei vecchi compagni. E seguii così, di lontano, il mio morto. Vedevo ogni tanto quella bara come ondeggiare. Ogni tanto, dalle finestre, gettavano fiori; anche da finestre umili, di umili e povere case. Per le strade, le fiammelle a reticella del gas, accese, ravvolte di veli neri, e appena visibili nello splendore del sole, davano guizzi come brividi". Poi nella Certosa il pianto del compagno sulla bara. "Quel mio povero amico più non si tenne, si abbandonò su la bara, l'abbracciò con tutta la faccia accostata al vetro, e con singhiozzi così lunghi e cupi che ne fummo presi tutti; e gran pena ci fece la vedova di Severino più di tutti. Quel caro figliolo piangeva per sé, e piangeva per noi, anche per quelli che non erano li. Riuscì Guido Mazzoni, affettuoso e paterno, a risollevarlo, a ridargli quiete. E io lo trassi meco; ci allontanammo. Era ormai il vespero freddo; e la luce, più che dal cielo, veniva dalla terra, bianchissima, nella gran pianura, di neve. Ti ricordi -mi disse- quel giorno? che scese dalla cattedra allegro e svelto, e voleva tenersi l'albo, che era peso, sotto il braccio, e solo fuori dell'aula il buon Monti [il bidello] glielo potè levare e prendere? E quelle parole?... Io -soggiunse- non sarà orgoglio dire che a quelle parole ho tenuto fede; e così credo anche tu. Anche io".
Come in tutte le sue prose di memorie (tra le più autentiche del nostro Novecento), e più specialmente in quelle dedicate al Carducci, Valgimigli sa rendere il sentimento della vita nel modo più naturale, con gentilezza e malinconia (gentilezza e malinconia sono parole chiave della sua scrittura). Spesso in un apparente divagare, ravvivato dal calore degli aneddoti, in un discorso piano che si fa confidenza e colloquio. Senza parere rivela il pudore degli affetti nel barlume delle parole.
Valgimigli si laurea col Carducci a Bologna il 15 novembre 1898, con una tesi su Poesie anonime medioevali latine. È a Bologna nel novembre del 1894. Viene da Lucca, dopo aver compiuto gli studi ginnasiali e liceali, attratto dalla fama del Carducci, e anche per una certa spinta del padre, direttore didattico e appassionato carducciano, attento lettore e collezionista delle varie opere del poeta. "Oh, i miei pomeriggi autunnali, con mio padre, su le mura di Lucca! Ricordo gli opuscoli in quarto dalla copertina gialla o rossastra, coi margini larghi; e i piccoli elzeviri zanichelliani, di carta liscia e grossa che male reggeva alla legatura, con quelle lor pagine chiare, di stampa netta e minuta; e le Confessioni e Battaglie nelle edizioni del Sommaruga, dalla bella copertina tutt'attorno fiorita di fregi colorati e sottili! Che cosa capivo io allora di tutto codesto? Assai poco, lo so. Eppure molto, chi pensi che cosa è per un ragazzo questo primo aprirsi dell'animo alla poesia: una vampa, una fiamma; sente che la poesia è lì, è presente, gli balena davanti, lo accende; capirà poi; e felice lui se poi, quando capirà, sentirà ancora dentro sé quella fiamma".
[...]
Iginio De Luca

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