Il mantello dì Cebète

Il mantello dì Cebète
da:Il mantello di Cebète Editrice La Mandragora

...Infatti questo nostro tessitore, dopo aver consumati e intessuti molti mantelli, va bene dire che rispetto a codesti egli è morto dopo, ma rispetto all'ultimo, credo bene, è morto prima...
Platone, Fedone 87 c

Povera mamma, come l'affliggevano quelle servette giovani e sventatelle che avevamo allora nei nostri primi anni, e i nostri figlioli erano piccolini. Si era finito di desinare, ci si indugiava a tavola, rumore di cocci in cucina. I ragazzi si guardavano e guardavano me con una punta di riso invisibile nel fondo degli occhi. E anche a me, un poco, sarebbe venuto da ridere. La mamma si alzava, andava a vedere, ritornava con la faccia brutta: un bicchiere rotto, un piatto sbreccato, una tazza incrinata. Ma a ritrovarci noi che proprio costernati non eravamo, presto si rasserenava. "Creatura," dicevo io, "si sa, in una casa viva si rompe".
Pareva presentissi che, rimasto io solo con una vecchia domestica, in questa mia casa non ci sarebbe stato più niente, si può dire, da rompere e tanto meno da ricomprare. Questa tazzina, a cui io séguito a bere il caffè, così fragile e così trasparente, risica di essere meno mortale di questa grossa impalcatura di ossa che sono io. Tazze, tazzine, piatti, bicchieri, da anni sono là in fila nella credenza, e appena si ritirano fuori ogni tanto per spolverare, e poi si rimettono a posto. Sono tutte cose sopravvissute. Ognuna ha in sé una sua memoria, di luoghi di persone di stagioni di occasioni. Ora a me un bicchiere basta, una scodella basta.
Mi disse un giorno la domestica: "Con questo sapone che non si trova e con queste varechine che bruciano e tagliano la biancheria, non si potrebbe risparmiare la tovaglia e apparecchiare con un tovagliolo soltanto? " La guardai, incerto, rispondendo appena con un gesto, come dire: "Faccia lei". Ma il giorno dopo le dissi: "Abbia pazienza, ridistenda ancora tutta la tovaglia su tutta la tavola, come si è sempre fatto". Avrei voluto aggiungere: "E metta piatti e bicchieri e posate e salviette anche negli altri tre lati. E qui, alla mia sinistra, metta anche quella scodellina di ferro, e quel bavagliolino col B e quelle posatine di argento che sono là, in fondo al cassetto".
Era sempre una grande festa allora, quando eravamo tutti, rinnovare e comprare. Questo si faceva di solito al principio dell'autunno, quando si ritornava di campagna e le scuole si riaprivano. Dicevo io, nel mio egoismo impaziente di confusione e disordine: "Senti, mamma (la chiamavo così, come i figlioli; e la cercavo per tutte le stanze, più noioso e più petulante dei figlioli, solo che smarrissi i fiammiferi, o un gemello non mi si chiudesse, o non riuscissi a districare un nodo dal laccio di una scarpa), senti, mamma, tu domani vai giù da te; io e i ragazzi restiamo qui: butti per aria gli armadi, le credenze, i tappeti, le tende, fai quello che vuoi; quando hai finito, veniamo anche noi". E quando ritornavo era tutto in ordine, e il mio studio era tutto lustro coi vetri lustri, e anche i libri al loro posto negli scaffali e le sedie vuote.
Ma più era festa quando si cambiava casa, cioè sede e città. Anche c'era allora, o perché io avessi ottenuta una residenza migliore o desiderata, o perché fossi "salito meritatamente di grado", come dicevano congratulandosi meco il signor Preside e gli egregi colleghi, c'era tutt'intorno come una frescura di letizia, si scoprivano ogni momento cose belle, luoghi belli, si incontravano persone cortesi, pareva perfino che lo stipendio fosse cresciuto -non c'erano anche le "indennità di trasferimento"?- e che i battenti della Banca, presentandomi io, dovessero scivolare sui cardini e dire, "Ecco, i denari sono qui, prendete, spendete". E così, dopo i primi giorni, trovata e messa a posto la casa alla meglio, almeno i letti e la cucina da poterci mangiare e dormire, rimandati i figlioli a scuola, la mamma poteva prendersi finalmente un po' di respiro e di riposo, e mi diceva: "Domani il pomeriggio, dopo scuola, tu non scrivi, non fai niente e vieni con me". Se ne era tanto parlato insieme tante sere precedenti della nuova sede, della nuova casa, della nuova sistemazione; e tanti progetti e calcoli si erano fatti: ci voleva una camera per la bambina che ormai era cresciuta, qualche altra sedia e magari due poltroncine ("Tu non vuoi il salotto da ricevere; ma un angolino nella stanza da pranzo, se venga a farci visita la moglie del tuo Preside, ci vorrà")... Uscivo di scuola, me la trovavo giù alla porta, e si andava.
Andare a spasso per il mondo con una creatura giovane e leggera; aiutarla nel vivere e da lei aiutati; vedere insieme genti e città diverse e dovunque sentire subito radicata e come rinverdita la propria umanità; avere un'aria come di volo, e dentro il petto, a certi incontri e casi, uno squittire di risa; senza rodìi di ambizioni vane e nemmeno, come dicono, di carriera; attenti al proprio lavoro e ai capricci del proprio lavoro, utile o disutile non importava; indifferenti alla povertà, e talvolta anche al bisogno; nella scuola voler bene ai ragazzi e rispettare i ragazzi, cioè fare scuola, e niente altro; e quella peste, laggiù o lassù, di Roma minervina, con le sue scale i suoi portieri i suoi direttori e i loro galloni, quasi neanche ci fosse; e custodire la propria anima liscia e pulita con naturale facilità. Si andava. Ma lei, non so come né quando, aveva già visto tutto: la bottega dell'elettricista e la lampada che ci voleva per il mio tavolo da studio ("il paralume te lo fo io con un bel fiocco di carta velina verde"); il negozio delle terraglie e un servizio per sei persone ("lo sai che se m'invitavi a desinare qualcuno, per cambiare i piatti ci volevano giochi di prestigio"); una botteguccia di scampoli per le mezze tendine delle finestre almeno giù dove si mangiava, con la porta a vetri che dava sulla strada. Questo a Messina, dove io ero stato trasferito dopo il terremoto. Avevamo tre stanze, due sopra e una sotto, in una lunga baracca di legno, ai Miracoli, tra una viuzza secondaria e il viale San Martino. Ma io vedevo tutte le mattine, dalle finestre di sopra, levarsi il sole dall'Aspromonte, e lo stretto azzurrissimo, e per lo stretto le molte barche a vela che lo tagliavano da Villa S. Giovanni e da Reggio, e le grandi navi che lo solcavano maestose e lente verso il Tirreno da una parte o verso l'Ionio dall'altra.
Passa il venditore della borràina e quello delle cipolle di Tropea; levo il capo a uno strillo giocondo, la bimba è giù in istrada col fratellino minore, e gli parla in dialetto messinese, e ride e dice che l'asino del venditore di fave fresche proprio davanti alla nostra porta ha fatto un lago di "pisciazza" fumante; è un vespero sereno, l'Aspromonte è tutto chiaro e dorato dal sole che tramonta dietro Antinnammare; abbiamo lavorato tutto il giorno; oh via, pigliamo una carrozzella, sei soldi, trenta centesimi, e facciamoci una scarrozzata per tutto il Viale San Martino fino alla Pescheria vecchia, dove compreremo le costardelle verdi da arrostire la sera sulla gratella e appuzzare di fumo tutta la casa.
Non c'era modo allora di guardarsi indietro, se una cosa non serviva più; e si buttava. Il passato ancora non c'era. Tutto era vivo nella casa viva; viva e giovane, che non aveva avuto niente da nessuno, e dove anche il primo straccio, il primo mestolo da cucina ce lo eravamo comprato da noi. Né c'era il pensiero del triste domani e la malinconia delle cose all'ultimo di noi sopravvissute. Per questo, perché le nostre robe finissero dal rigattiere di una di quelle buie straducole fuori mano, quest'ultima guerra ha risparmiato la mia casa? Suonava l'allarme, io andavo nella camera accanto. Mi aspettava. Si udivano per la strada i passi e le voci della gente che si affrettava ai rifugi. "Qui è tutto in pace", mi diceva; "qui, noi due insieme, è tutto tranquillo". Per questo quella notte, e oramai in casa ero solo, e i colpi scrosciavano tutt'attorno, e nel buio non vedevo che gli occhi accesi e spaventati della Nannò accucciata ai miei piedi, e in certo momento la casa dette un crollo, e i vetri saltarono e caddero polvere e calcinacci, e la bestia si levò su mugolante e mi posò le sue grosse zampe sul petto, e io le dissi: "Cara Nannò, ora scendiamo fra le braccia del Signore"; per questo anche quella notte il Signore non mi volle? Un giorno un bimbo si ammala, e se ne va. Io non dico che allora cambi la faccia del mondo, ma la faccia della casa e delle cose di casa sì. Allora le cose diventano quelle di ieri. Dal giorno che la morte è entrata e poi uscita con quella piccola cassa portata sulle spalle da quattro scolari miei, che me la vollero portare giù per le lunghe scale e poi su fino ai Boschetti davanti al Golfo della Spezia, da quel giorno le cose erano divenute diverse. Erano cose che c'erano prima. Che erano state toccate in un modo; che erano state adoperate in un modo. Non si poteva più buttarle via alla leggera, anche se non servivano più. La storia è fatta così, quella grande e quella piccola; è la morte che la costruisce. Anche la storia di un soldatino dentro la sua garitta, o di una sciabola di latta, o di un trenino di ferro coi vagoncini che si sganciano ogni momento, e io ho davanti agli occhi quelle povere manine, sul lenzuolo bianco, impazienti e incapaci di riagganciarli, e il babbo arriva con una pinzetta. "Ecco, ora vedrai che non si staccano più". Anche un bimbetto di sette anni è un impeto di vita che nelle viscere della madre séguita a battere sempre con eguale violenza.
Eppure un giorno fu proprio la madre che mi disse: "Ormai quella cartella, oggi sono venti anni, anche lei è morta, e lì non può più stare". Era una cartelletta di scuola, di tela incerata, con due assicelle di legno ai lati, e una cinghietta fermata da due borchie di ottone. Dentro c'era un astuccio, e dentro l'astuccio una penna col suo pennino e, dall'altra parte, coi segni di dentini che l'avevano un po' rosicchiata. Io l'avevo appesa a un angolo del mio studio e quasi nascosta tra le pareti di due librerie. Ma la tela si era screpolata e afflosciata e accartocciata, e nel risvolto il gancio di chiusura non teneva più. Tutte le mattine il bimbo di seconda elementare se la infilava a tracolla, si metteva i guantini di lana, la mamma gli passava le mani sulle spalle per spianargli il cappotto, sul capo per aggiustargli il berretto, lui le porgeva il volto e le labbra, poi dava una mano al babbo, e andavamo a scuola, lui alla sua, io alla mia. "Sì, mamma, hai ragione". E aspettammo un pomeriggio di domenica che in cucina non ci fosse nessuno. Staccammo la cartella, aprimmo la bocca del termo, richiudemmo.
Ora eravamo a Padova. La casa era cresciuta di anni e di cose. Non era più giovane, ma era viva ancora. Ancora si poteva distruggere, ricomprare, rinnovare, dare aria. Non c'erano le vetrine chiuse, gli armadi chiusi, le casse chiuse. Non avevano le cose intorno a sé quell'alone di vita finita, quel sentore di morte, quell'odore di morte, come quando càpita di aprire la scatola dove si sono conservati, chi sa perché, nastri e fiori di corone funebri. E un giorno la mamma mi disse, e sorrideva: "Quei denari che hai avuto stamane... e non te li aspettavi, li devi regalare a me". E il giorno dopo, con un grosso fagotto, arrivò a casa un fattorino della casa Frette. La casa Frette, da quando eravamo insieme, era sempre stato il suo paradiso. "Ora sono proprio contenta" mi disse; "quei quattro lenzuoli contati, lo sai, erano la mia preoccupazione. Se uno si ammala... E poi" aggiunse "ce ne vuole anche qualcuno di più... sì, dico, da portare via con sé".
Era lì con noi la nostra figliola che mi stava correggendo le bozze del Fedone. Alzò gli occhi e mi guardò: "Già, disse, l'ultimo lenzuolo; l'ultimo mantello: il mantello di Cebète".
Manara Valgimigli

www.scalve.it