ENRICO ALBRICI
La vita
di Maria Adelaide Baroncelli
(in I pittori bergamaschi dal XII al XIX secolo, il Settecento
III, Bergamo, Bolis, 1990).
Le notizie sulla vita dell’Albrici (1)
si desumono principalmente da due fonti: i numerosi documenti che qui si
pubblicano, quasi tutti per la prima volta, e l’opera di Francesco Maria
Tassi, contemporaneo del pittore che ne scrisse la biografia con ricchezza
di particolari (2).
Enrico nacque a Vilminore in Val di Scalve da Maffeo
e Margherita il 19 novembre 1714 e fu battezzato il giorno stesso, come
risulta dall’inedito atto di battesimo conservato nel suo paese natale.
La famiglia dalla quale discendeva era antica, cittadina di Bergamo e di
Brescia, ridotta negli ultimi tempi a limitate sostanze (Tassi p. 110).
Figurava nei documenti fin dal 1362: gli Albrici di Val di Scalve erano
stati di parte guelfa e il loro stemma era costituito da "un castello a
due torri sormontato da un leone inleopardito e da una ruota" (3).
Afferma il Tassi "Scoperta nel giovane figlio, il quale altro non faceva
che schiccherar fantocci col carbone, o altra materia, la grande inclinazione
che aveva alla pittura lo misero i suoi genitori tosto sotto la direzione
di Ferdinando Cairo, noto pittore di Casale Monferrato (4)
che in quel tempo era stanziato in Brescia, sotto del quale si mise Enrico
con tutto lo spirito a studiare il disegno, in modo che a null’altro attendeva
fuori che a suonare alcuna volta il cembalo per sollevarsi dallo studio
indefesso, che faceva per apprender la pittura. Dimorato circa tre anni
in Brescia sotto un tale maestro, fu con suo molto danno chiamato da’ genitori
alla patria; dove tutto che alcune operette facesse sì pubbliche
che private, tuttavia non solo non si avanzava nell’arte sua distraendosi
dallo studio, e dandosi con gli amici al bel tempo, ma s’accorse che molto
andava perdendo di quanto sotto il maestro aveva acquistato. Per la qual
cosa l’anno 1740, dato bando a’ divertimenti ed al suono, prese di nuovo
con calore lo studio della pittura, disegnando e leggendo libri, che di
quella trattano, e spezialmente le opere di Leon Battista Alberti, e del
Vinci. Fece quindi altre opere, ma come le prime di non molto merito".
I tre anni di studio alla bottega di Ferdinando del Cairo
furono importanti per la formazione pittorica dell’Albrici, che in seguito
fu solo autodidatta e non frequentò altri maestri. Molte notizie
interessanti ed inedite su questi anni si desumono dall’Archivio parrocchiale
di Vilminore, nel quale si trova il nome di Enrico con quelli dei genitori
e di una sorella di due anni più vecchia di lui, Giovanna, quasi
demente (5).
Presente in tutti i censimenti fino al 1730, Enrico non
appare in quello del 1731, per riapparire nel 1733. Fra il ’30 e il ’33,
dunque, si può datare il primo periodo bresciano dell’Albrici presso
il Cairo.
Il 14 agosto 1735, all’età di quasi 21 anni, egli
riceve la Cresima a Vilminore, insieme a un cospicuo numero di altri giovani
del paese; è poi sempre presente coi genitori e la sorella nei successivi
censimenti, fino al 1740. In quell’anno, dopo gli ozi e gli svaghi, secondo
il Tassi si mise a studiare di lena: e ciò è comprensibile,
perché il giovane aveva in animo di sposare una coetanea anch’ella
di Vilminore. Apprendiamo infatti dall’inedito atto di matrimonio che il
10 luglio del successivo 1741 si celebravano le sue nozze con Maddalena(6),
figlia di Cristoforo Albrici. Nel 1742 i due sposi (di anni 27) sono censiti
nella casa paterna, coi genitori e la sorella di Enrico; l’8 agosto dello
stesso anno nasce Giacomo Maria(7), il
loro primogenito, come risulta dall’inedito atto di battesimo.
Nel periodo successivo è difficile seguire i movimenti
della famigliola del pittore. Negli ultimi mesi del 1743, o nei primi del
1744, nasce il secondogenito Giovanni, futuro abate e gloria della famiglia:
ma, contrariamente ai fratelli, non viene battezzato a Vilminore (8);
l’assenza della famiglia dal paese è provata anche nel 1745, quando
Enrico, la moglie e i figli, non sono presenti al censimento, nel quale
figurano invece i vecchi genitori e la sorella.
Il pittore sta infatti eseguendo, lontano dalla Val di
Scalve, le sue prime opere "importanti" e retribuite: firma infatti a Brescia,
il 4 dicembre 1744, la ricevuta di £ 46 per l’esecuzione delle due
finte statue dell’ordine superiore nella chiesa della Carità e,
nell’ottobre 1745 pone, insieme con lo Scalvini, la data nella chiesa di
Berzo di Valcamonica, dopo avervi ultimato l’imponente lavoro per la decorazione
dell’interno (9). Si può supporre
che l’Albrici avesse portato con sé la famiglia in questi suoi primi
spostamenti. Le notizie d’archivio, dunque, smentiscono e anticipano la
datazione del Tassi, secondo il quale l’Albrici si allontanò da
Vilminore solo nel 1745: "spinto dal desiderio di sempre più avanzarsi
nell’arte, si portò di bel nuovo a Brescia nel 1745; ove con suo
notabile dispiacere non ritrovando più il suo maestro Cairo, si
mise con tutto l’impegno a studiare da sé, disegnando e copiando
da’ migliori quadri di quella città con molto profitto". L’arrivo
a Brescia è da porsi invece fra l’ottobre 1743 (data della morte
del maestro) e il 4 dicembre 1744 (data della prima ricevuta alla chiesa
della Carità).
Il 7 novembre 1745, di ritorno da Berzo, è di
nuovo a Vilminore, dove si impegna ad eseguire la Crocofissione di S. Pietro
a fresco sulla controfacciata per tutta l’estate successiva. L’estate del
1746, dunque, il pittore rimane presente a Vilminore per dipingervi quell’affresco
e "una tela" come pattuito.
Comunque, nonostante questi inediti contratti ci provino
i lunghi soggiorni anche a Vilminore, la vita e il lavoro dell’Albrici
si svolgono ormai a Brescia, come sottolinea il Tassi.
Nonostante la delusione per la morte di Ferdinando del
Cairo, che lo ha privato del maestro, l’Albrici cerca di migliorare la
sua tecnica con quella tenacia e con quella volontà che non lo abbandoneranno
più per tutta la vita. Raggiunge dei buoni risultati "disegnando
e copiando": questo suo metodo di autodidatta lo porta ad essere stimato
e apprezzato anche da altolocati committenti.
"Fu creduto capace di dipingere alcuni sott’insù
di casa Ugeri" (Tassi), gli vengono commissionate altre due finte statue
a chiaroscuro nel primo ordine della facciata della chiesa della Carità
(firma per esse la ricevuta di £ 38 l’8 luglio 1746), e sempre a
chiaroscuro affresca due medaglie e sei statue laterali ai quattro altari
del santuario di S. Maria dei Miracoli (1746 e 1747). Il monocromo diventa
in quegli anni la sua specialità: viene perciò chiamato ad
eseguire, con questa tecnica, "molti ritratti di letterati ed uomini illustri"
dal cardinale Querini, che in quegli anni stava erigendo la biblioteca,
che avrebbe poi donato alla città. I medaglioni, dipinti sulle pareti
della sala di lettura, oggi non più visibili perché nascosti
da scaffalature, furono certo motivo di delusione per il pittore. Infatti
l’11 marzo 1747, a lavoro ultimato, egli presentava il suo conto al cardinale
Querini: £ 196 per i 28 ritratti a £ 7 ciascuno. L’indomani
egli veniva puntualmente pagato, ma con notevole sconto: ogni ritratto
era saldato "in picollo" a sole £ 6, per complessive £ 168.
Questo mercanteggiare del grande mecenate sull’opera
del giovane pittore, lontano da casa e con carico di famiglia, potrebbe
far pensare all’insoddisfazione del committente per l’opera eseguita. Contrasta
invece con questa supposizione il fatto che, come scrive il Tassi, l’Albrici
fu più tardi ripetutamente all’opera per il cardinale stesso "del
quale fece in diversi tempi molti ritratti, per mandare a diverse Accademie
d’Italia, e d’oltra monti" (prima della morte del cardinale avvenuta nel
1755).
Il pittore veniva inoltre prescelto, insieme con Bortolo
Scotti, per eseguire fra il 1752 e il 1753 il ciclo di affreschi voluti
dai Deputati pubblici della città di Brescia per dimostrare la gratitudine
verso il Querini e che dovevano riprodurre i fatti salienti della sua vita
in tondi a monocromo lungo lo scalone della biblioteca. L’Albrici da solo
poi affrescava, nel 1753, alla sommità della prima rampa, la finta
statua a monocromo che coronava l’opera di esaltazione del cardinale, simboleggiandone
la "sapienza".
Tra queste opere per la biblioteca, i ritratti del ’47
e l’allegorica statua del ’53, intercorrono anni fervidi di una attività
quasi frenetica.
Già nel 1747 erano state eseguite, oltre alle
citate finte statue della chiesa dei miracoli, anche gli affreschi, oggi
perduti, ricordati dal Maccarinelli, raffiguranti una Crocifissione in
un andito fra il Broletto e la nuova cattedrale e i Miracoli di S. Liborio
nella cappella del Santo allora esistente nel duomo vecchio.
Sono del 1747 i tre Santi (perduti) affrescati nella
chiesa dei Santi Cosma e Damiano e gli Angioletti che dovevano rendere
più liete le quadrature della volta di quella chiesa: anzi il Maccarinelli
giudica quelli dell’Albrici i più belli di tutti.
C’è a Brescia un fervore di opere, un intrecciarsi
di nomi di artisti che lavorano contemporaneamente e che si scambiano le
loro esperienze. Sono di quegli anni alcuni dipinti dell’Albrici anche
fuori Brescia. Il Tassi ricorda che "chiamato indi in Valcamonica ebbe
a dipingere in varie chiese": qui menziona erroneamente gli affreschi di
Berzo, che in realtà sono datati, come già detto, "ottobre
1745"; ricorda inoltre che "ancora in Borno nella chiesa parrocchiale dipinse
la rotonda sopra il coro, in cui rappresentò S. Gio. Battista in
gloria, ed a basso li quattro Profeti". Sappiamo che quel coro, poi demolito,
era già costruito nel 1747.
Mentre il pittore lavora con grande impegno a Brescia
e in Valcamonica, la sua famiglia abita a Vilminore. Nel 1747, con i suoi
vecchi genitori e la sorella demente, risiede la moglie "uxor Henrici fili
Brixie habitantis", insieme coi figlioletti Giacomo di 4 anni e Giovanni
di 3. Nel paese, il 17 luglio 1748 nasce la piccola figlia Maria Margherita,
che non sopravvive. Là nel censimento del 1749 il pittore risulta
ancora assente, abitante a Brescia.
Nella città l’Albrici inizia a dipingere, nello
stesso 1749, quel ciclo di tele a olio che lo vedranno attivo per parecchi
anni nel santuario di S. Maria dei Miracoli, e che verranno poi in parte
distrutte dal bombardamento del 1944. Tra le cinque lunette su tele sagomate,
due portano le date 1749 e 1750; tra i sette quadri di diversa grandezza
uno, probabilmente l’ultimo, è datato 1754.
Il 29 febbraio 1750, di notte, nasce a Vilminore il figlio
Michele Angelo (10), e il pittore,
almeno questa volta, è presente in paese anche al momento del censimento.
Sono ormai morti tutti e due i genitori ed accanto ad Enrico (q. Maffei)
e a Maddalena (q. Christophori Alberici) si trovano i figli Giacomo di
7 anni, Giovanni di 6 e Michele Angelo "infans". Abita con loro la sorella
del pittore Giovanna.
Sempre attivo a Brescia, l’Albrici firma nel 1752 due
opere ricordate dal Maccarinelli: l’affresco riguardante S. Cristoforo
nella chiesa omonima e la tela S. Gerolamo Miani che assiste un agonizzante
nell’infermeria dell’ospedale maggiore, oggi entrambe perdute.
Vero pendolare del pennello, il pittore non dimentica
mai il suo paese d’origine. Il 28 settembre 1753 è a Vilminore,
dove si impegna ad eseguire nella primavera dell’anno seguente, per £
450, i quattro grandi affreschi sulle pareti laterali della parrocchiale,
come risulta dall’inedito contratto.
Il 1754 è un anno ricco di opere e di attività.
Nella primavera, come pattuito, l’Albrici dipinge per la sua chiesa i quattro
grandi affreschi, ponendo sull’ultimo la data appunto 1754; la stessa data
figura anche nel santuario di S. Maria dei Miracoli a Brescia nella tela
già ricordata che raffigura la Consegna delle chiavi a S. Pietro
e a Gorno, dove la firma "ENRICO ALBRICI pins. 1754" si trova nella Visitazione
della parrocchiale. Probabilmente contemporanee sono anche le lunette e
i Profeti della chiesa di S. Alessandro in Brescia.
In tale intensa attività gli è d’aiuto,
come ricorda il Tassi, l’amicizia del conte abate Giorgio Duranti (11),
pittore di volatili, "di cui era in molta grazia" e dal quale "fu introdotto
a dipingere in diverse chiese del bergamasco, ed in varie case ragguardevoli
di Brescia, cioè in casa degli Ugeri, Martinengo, Colleoni, Avogadro,
ed altri, palchi ossia soffitti a fresco né loro palazzi". Se gli
affreschi (o le quadrature?) dipinti dall’Albrici nei palazzi bresciani
sono oggi scomparsi o difficilmente identificabili, l’esattezza delle parole
del Tassi è invece provata dalla già ricordata tela di Gorno,
che conferma l’aiuto dato dal Duranti all’Albrici per dipingere "in alcune
chiese del bergamasco".
Porta la data 1757 La caduta della manna sulla controfacciata
della parrocchiale di Barzesto in Val di Scalve e quella 1761 l’affresco
nella chiesa di Lizzola in Val Seriana, dipinto sulla parete accanto alla
bella pala dell’altare maggiore da lui firmata.
Nello stesso anno, da Brescia, l’Albrici invia una inedita
lettera, molto interessante, che ci apre un nuovo spiraglio sulla futura
attività del pittore.
La lettera spedita da Brescia il 9 aprile 1761, è
oggi custodita nell’Archivio dell’Accademia Carrara, cosa che prova l’importanza
che il conte Giacomo gli attribuiva: ma non è indirizzata al conte
stesso, bensì a Ludovico Ferronati, intenditore bergamasco dedito
al collezionismo, a scambi e forse anche al commercio di opere d’arte.
In essa l’Albrici lamenta di essere importunato da un certo veronese che
insiste presso di lui perché sia intermediario di un baratto tra
due quadri di pigmei e "numero 30 di carte vecchie" che si trovano presso
il Ferronati. L’Albrici dovrebbe spedire a Bergmo i due quadri e riceverne
in cambio le carte.
Non è chiaro se i due quadri di bambocciate offerti
dal veronese al collezionista siano opere dell’Albrici o di altro autore.
Certo è che il pittore aggiunge: "…con molto tempo che avevo pensiero
di ritocarli ma sin ora non li hò fatto niente. Ma quando verò
a Bergamo sé resteranno a V. Sig. gli voglio Fare diverse mutazioni".
Si tratta di vecchie tele da restaurare o di primi tentativi del pittore?
L’Albrici si dichiara pronto a farvi dei mutamenti qualora il Ferronati
trattenga le tele presso di sé.
Questa lettera anticipa di due anni la data in cui si
credeva che l’Albrici avesse iniziato a interessarsi di quadri di nani.
Il Tassi, infatti, dice che solo dopo il 1763 "giunto a Bergamo si mise
a dipingere quattro quadri di pigmei" che furono visti e apprezzati dal
conte Carrara e dallo stesso Ferronati, che lo incoraggiarono a proseguire.
Questo scritto ci rivela invece particolari diversi: il pittore dimostra
una conoscenza di quadri di pigmei che risale agli anni bresciani, e quindi
precedenti al suo trasferimento a Bergamo, città dove i due collezionisti
lo sollecitarono a divenire pittore di bambocciate.
Non è fatto che ci meravigli. A Brescia era fiorita
l’arte di Faustino Bocchi, allievo di Angelo Everardi, detto il Fiammenghino
(12) e iniziatore di quel genere. Là
erano nate le bambocciate di nani e vi avevano riscosso un enorme successo.
Il Bocchi era morto il 27 aprile 1741, e il giovanissimo Albrici poteva
averlo incontrato nel suo primo soggiorno bresciano del 1730-33, quando
frequentava la bottega di Ferdinando del Cairo.
Le bambocciate a Brescia erano notissime e ricercatissime.
Basti ricordare che "quando, nel 1729, Filippo Iuvara venne a Brescia per
dare consigli su un particolare tecnico per la costruzione del duomo nuovo,
che stava allora sorgendo, i Deputati della fabbrica del Duomo gli offrirono
in dono 24 zecchini e 6 bambocciate del Bocchi. Lo Iuvara rifiutò
gli zecchini, ma accettò invece i quadri" (13).
Sappiamo inoltre, come scrive un contemporaneo, che numerose
famiglie nobili bresciane possedevano "delle storie capricciose di pigmei"
e, fra le altre, la nobile famiglia Uggeri ne aveva "alcuni pezzi originali
assai belli" (14): si tratta della
stessa famiglia nel palazzo della quale l’Albrici era stato chiamato ad
affrescare a Brescia i suoi primi "sott’insù".
Non è dunque necessario soffermarsi ulteriormente
a sottolineare come la conoscenza delle bambocciate derivi all’Albrici
dall’ambiente bresciano, anche se è attendibilissima la notizia
del Tassi che l’incoraggiamento a tentare e a proseguire in questo genere
di pittura gli sia venuto poi dall’ambiente bergamasco, dove i quadri di
nani costituivano una novità, conosciuta fino ad allora solo dai
più aggiornati intenditori.
Nella lettera già citata si rileva anche un curioso
particolare di vita quotidiana: la distrazione e la dimenticanza di un
ombrello. L’Albrici prega il Ferronati di riverirgli un certo signor don
Bonifazio, al quale dovrà inviare un disegno non ancora finito,
e gli manda a dire: "la sua ombrella lo ancora a Scalve quale sé
verò da quella parte gliela portarò". È facile dimenticare
un ombrello, per un uomo che passa la vita tra continue peregrinazioni!
In quegli anni, tra l’altro, lavora anche per un committente
di riguardo, un suo lontano parente, del casato degli Albrici di Angolo.
Il pittore annota, a più riprese, tra il 1761 e il 1762, sul verso
di un disegno preparatorio per una Via Crucis i suoi crediti verso il "N.ob.Sig.
D. Gio: Giuseppe Albrici", che si può identificare in quel parroco
di S. Bartolomeo di Cemmo che lasciò traccia della sua opera di
uomo colto, zelante, ma non certo privo di orgoglio (v. nota 15).
Per lui dipinge quadri di soggetto religioso (ricompensati con "elemosine
di Sante Messe" e "robba"), ma soprattutto ritratti e copie di ritratti
di personaggi della famiglia, vivi e defunti, e perfino lo stemma nobiliare
da ostentare su un vecchio ritratto della "nob. Sig.ra Camilla fu sua madre"
che ne era sprovvisto.
Il pittore, certamente "parente povero", nomina con molta
deferenza i personaggi del casato, e definisce come "armi di sua casa"
lo stemma, che era lo stesso della propria famiglia (16).
Enrico Albrici si avvicina ormai ai cinquant’anni, ha
problemi di salute ("ogni due – tre anni per la troppa applicazione direi
quasi impazziva", ricorda il Tassi), e tuttavia continua la sua vita di
lavoro febbrile lontano dalla famiglia, sempre costretto a spostarsi da
un luogo all’altro percorrendo e ripercorrendo soprattutto le vie che da
Brescia portano alle valli Camonica e di Scalve, strade di montagna circondate
da picchi nevosi, strade che a quei tempi dovevano essere impervie e disagevoli.
Sono di questi anni tante opere, che lo vedono attivo in vari paesi non
lontani dal suo, a dipingere Madonne e santi per la fede devota dei valligiani.
"Era amatissimo dell’arte sua a segno che non cessava dal lavoro, così
che anche di notte o dipingeva o disegnava" (Tassi).
Nonostante ciò, tante erano le commissioni, che
a stento riusciva a tener fede ai suoi impegni. È del 26 luglio
1762 una lettera che gli viene indirizzata da Esine in Valcamonica, e che
subito il pittore utilizza per schizzarvi disegni sul recto e sul verso.
Gliela spedisce un certo Antonio Fusi, sicuramente l’intagliatore bresciano
che aveva eseguito gli ornati dell’organo nella parrocchiale di quel paese,
che diplomaticamente elogia la sua "selebra mano", e gli promette altre
commissioni se si affretterà a terminare una Via Crucis che evidentemente
andava per le lunghe: "onde più presto conducerà la Via Crucis
che da noi tutti è deziderata ci darà anche lordine di dette
opere".
Ma ormai i tempi sono maturi per una decisione importante:
il trasferimento a Bergamo di tutta la famiglia, nel 1763, quando Giovanni,
il secondo dei tre figli, futuro abate, fisico matematico, deve recarsi
in quella città "per farsi prete" (Tassi) (17).
Abbiamo visto che nella lettera al Ferronati l’Albrici
accennava a una sua venuta a Bergamo nell’aprile del 1761: forse già
da allora pensava a risiedervi "lusingandosi che l’aria di Bergamo essergli
potesse più omogenea, e salubre di quella di Brescia, dove sofferti
aveva molti incomodi, e sopra tutto riscaldamenti di testa, che gli cagionarono
anche alterazioni di mente". (Tassi).
Alla sua salute avrebbe dovuto giovare, tuttavia, più
che l’aria di Bergamo, la vicinanza e l’assistenza della famiglia. In quella
città, nello stesso anno 1763, esegue la Trasfigurazione per la
parrocchiale di Vilminore "per 65 scudi come da scrittura 13 luglio 1763"
(come scrisse il Fornoni, che non si sa dove abbia attinto la notizia).
Nella nuova residenza, il pittore ha quel fortunato incontro
che sarà decisivo per la sua carriera artistica. Dice il Tassi (ma
la notizia è del Carrara) (18)
che "giunto in Bergamo si mise a dipingere quattro quadri di pigmei, sul
gusto del Bocchi; i quali tutto che in parte secchi e stentati, pure dimostravano
la di lui disposizione a divenir in tal genere di pittura molto valente.
Veduti questi dal Sig. Co. Giacomo Carrara e da Lodovico Ferronati dilettantissimi
di pittura, molto lo animarono a continuare a dipingere sì fatte
ridicole bambocciate, alle quale trovavasi egli di sua natura disposto,
e inclinato per certo tal qual estro buffonesco, che in lui nasceva particolarmente
quando gli si riscaldava la testa, e in certo modo impazziva. Si mise perciò
a copiare diverse opere dell’Everardi, e del Bocchi, che in buon numero
ritrovavansi nella galleria del Co. Giacomo Carrara. Con la scorta delle
quali migliorò a segno di non cedere in eccellenza a quelle del
Bocchi medesimo" (19). Copia dunque,
come aveva fatto quasi vent’anni prima a Brescia, quando non vi aveva trovato
più il suo maestro, e come allora raggiunge ottimi risultati. Ecco
che si sparge la notizia, la novità fa moda e il pittore è
nuovamente sommerso dalle richieste dei committenti: dipinge bambocciate
per la nobiltà e per l’alta borghesia della città a fresco
e in tela, e perfino su un cocchio "per l’aggradimento universale del quale
ebbe moltissime commissioni di tal genere".
Il Tassi elenca minuziosamente nomi di committenti della
città, descrive i soggetti delle tele, esaltando con compiacimento
l’originalità delle invenzioni, "espresse con tale vivezza, che
nulla più. Per la qual cosa sommamente dilettano chiunque, e son
da’ dilettanti con ansietà ricercati tali quadri e comperati a caro
prezzo". Questa testimonianza ci prova un nuovo lavoro stressante per il
pittore, ma anche il benessere economico. Aggiunge infatti più oltre
il Tassi che egli "molto contento si ritrovò di essersi stanziato
in Bergamo, dove da’ dilettanti essendo molto gradite le sue opere, spezialmente
di pigmei, ebbe continue commissioni, sicché con difficoltà
poteva arrivare a servir tutti". "Vari pezzi" di questo genere inviò
perfino "a Torino ed a Milano per diversi cavalieri".
Soddisfazioni, agiatezza, considerazione da parte dei
nobili committenti, rispettabilità, una casa in città di
fronte alla chiesa di S. Andrea, un figlio che si distingue negli studi
e che sta per diventar prete… tutto pare ora risolto, eccetto le condizioni
di salute del pittore, che risentono dell’eccessiva fatica, e forse anche
di tare familiari (20) o, perché
no?, di quell’avvelenamento da piombo che la dimestichezza con le biacche
produce talvolta.
Il pittore "fu di ottimi costumi", ma a causa del suo
lavoro, che si protraeva fino alle ore della notte, "ogni due o tre anni
per la troppa applicazione direi quasi impazziva, e in tale tempo diveniva
prodigo, e spendeva quanto di denaro si ritrovava, in divertirsi mangiando
e sonando, e trastullandosi, chiacchierando con un ciarlatano, con la testa
piena di idee signorili e grandiose a segno che diceva di volere in Vilminore
presso sua casa fare un teatro per commedie, ed opere in musica, per divertire
que’ rozzi villani: ma mancandogli poi il denaro cadde giusta il suo solito
in malinconia, dalla quale dopo alcuni giorni riavutosi, tornò a
dipingere" (Tassi). Notiamo in questa alterazione mentale, con stato di
eccitazione e di depressione, il riaffiorare di un’antica passione dell’artista:
quello per la musica, suo svago preferito fin da quando, ragazzo a Brescia
alla bottega di Ferdinando del Cairo, "a null’altro attendeva fuori che
a suonare il cembalo per sollevarsi dallo studio indefesso" (Tassi).
A Bergamo le bambocciate di nani lo portano a contatto
con una committenza diversa da quella con cui aveva avuto a che fare tutta
la vita, costituita da parroci, sindaci di chiese, cardinali e cugini avari
o altezzosi. Le sue tele di nani erano destinate agli scintillanti salotti
dove, fra dame e cicisbei imparruccati, c’era anche un’élite colta
che discuteva di storia, di arte e di letteratura.
Ecco perciò nelle sue bambocciate, accanto a una
miriade di grottesche scene di caccia e di battaglie tra nani e bestiole,
di case coloniche e di interni rustici, scene di vita contadina e ciarlatani
di piazza, emergere anche opere di ispirazione letteraria. Esse, forse
suggerite dalla committenza, hanno come soggetto "I viaggi di Gulliver"
o sono maliziose interpretazioni satiriche, sempre con nani, ispirate al
"Giorno" del Parini, fresco di stampa, o alle battaglie letterarie, scoppiate
proprio in quegli anni, che avevano anche in Bergamo vasta eco dopo la
pubblicazione della "Frusta letteraria" del Baretti (21).
È da osservare che, stranamente, l’Albrici nelle
bambocciate raramente pone la firma, quasi mai la data. Sono datate soltanto,
oltre Il Parnaso del 1765, una piccola tela di collezione bergamasca firmata
"Albrici pinxit 1767" e una terza, firmata e datata 1772, che è
fra le ultime opere del pittore alla vigilia della morte. Le altre vengono
eseguite numerosissime, con ritmo frenetico, ma il pittore ama interrompere
"di quando in quando tali opere bernesche di nani" per eseguire ancora
dipinti di soggetto sacro. Ciò avviene nel 1765, grazie al fortunato
incontro con un vecchio amico, il pittore Pietro Scalvini (22)
che, come lui, era stato da giovane allievo di Ferdinando del Cairo a Brescia,
e che con lui aveva eseguito l’impegnativa decorazione a fresco della chiesa
di Berzo di Valcamonica: per esse aveva lavorato fianco a fianco per lunghi
giorni fino all’ottobre del 1745, quando avevano finalmente posto la data
conclusiva. A distanza di vent’anni lo Scalvini, nel frattempo divenuto
a Brescia pittore ben noto, riceve una commissione a Bergamo per affrescare
l’interno della chiesa della Beata Vergine dello Spasimo in borgo S. Leonardo,
ed è questa l’occasione per incontrare la famiglia Albrici (23)
e per collaborare col vecchio amico, al quale riserva una parte del lavoro:
la tazza del coro e le quattro vele.
Altre opere di carattere sacro dipinge l’Albrici in quegli
anni: gli affreschi di Chiuduno, oggi perduti, quelli di Albino, di cui
si conservano solo dei disegni preparatori e la tela di Alzano Lombardo,
che ebbe difficile gestazione ed esito sfortunato. Scrive il Tassi: "a
concorrenza di Francesco Cappella, Gio. Raggi, e Federico Ferrari, fece
uno de’ quattro quadri della cappella della Beata Vergine del Rosario della
parrocchiale d’Alzano, rappresentante il fatto di Jaele e Sisara, il quale
a dir vero è una delle sue opere meno pregiabili".
L’artista doveva essere teso e preoccupato: l’opera si
svolgeva "a concorrenza" di altri artisti allora ben noti, gli era stato
chiesto preventivamente un bozzetto e il contratto, firmato il 21 marzo
1767, fino ad oggi inedito rivela una tale serie di clausole, precisazioni,
vincoli e raccomandazioni da parte dei sospettosissimi committenti, che
il risultato fu inevitabilmente deludente.
La tela doveva essere eseguita entro "un anno oggi incipiato"
per 25 zecchini; gli si prometteva astutamente "un regalo à cognizione
e discrezione" se il quadro fosse stato eseguito "à norma del prescrittogli".
Ma il "prescrittogli" appunto era una tale serie di legami che, impastoiato
fra questi, il pittore finì con l’eseguire una tela inferiore al
bozzetto per qualità, proporzioni e prospettiva: il risultato, considerato
infelice già dai contemporanei, è sottolineato dal fatto
che la tela, poi staccata dalla parete della cappella e sostituita con
un’altra, giace oggi quasi dimenticata.
L’8 ottobre 1768 l’Albrici è a Vilminore, dove
stipula un contratto per l’esecuzione di tre quadri "per ornamento del
coro della Madonna" nella sua parrocchiale. Un mese dopo, l’1 novembre
1768, inizia ad annotare su un foglio i successivi pagamenti, che si svolgono
a più riprese fino all’1 novembre 1769. In tale data vengono bruscamente
interrotti, senza che si parli di saldo, quando la somma percepita ammonta
a £. 925,176 ed è veramente troppo esigua per il pagamento
di tre tele.
Le prime due opere furono eseguite: S. Pietro che risana
lo storpio è la sola ricordata dal Tassi e fu certo dipinta per
prima nel 1768 (24); la seconda esistente,
La caduta di Simon Mago, è probabilmente del 1769, ma della terza
non c’è traccia. Invece, fra le cinque tele "del coro della Madonna",
altre due venivano dipinte in quegli anni dal Cappella, e proprio l’Albrici
stesso fu incaricato di versare al pittore in Bergamo gli acconti per ognuna
di esse nel 1769 e nell’aprile 1770.
Perché l’Albrici non eseguì la terza tela,
per la quale aveva firmato il contratto? Probabilmente perché nel
frattempo aveva avuto la commissione di altre due opere, la seconda delle
quali, particolarmente lunga e impegnativa, era tale da costringerlo lontano
e da impedirgli di raggiungere agevolmente Vilminore. Fra il 1769 e il
1770 era stato chiamato nella parrocchiale di Clusone quale figurista a
dipingere otto finte statue di Virtù, assai belle, in nicchie sagomate
dovute al pennello di Bernardo Brignoli. Queste Medaglie a chiaroscuro
sono ancora ricordate dal Tassi.
Egli non cita invece l’opera forse più significativa
dell’Albrici, dipinta l’anno successivo (25):
il ciclo degli affreschi della parrocchiale di Capo di Ponte. Essi portano
la data 1770 e una firma, la quale rivela l’orgoglio dell’artista che si
dice "ENRICUS ALBERICI CIVIS BERGOMI".
Questi affreschi sono come una summa della sua arte:
alternano i monocromi cari ai suoi inizi ai colori vivaci e le immagini
sacre a particolari curiosi e bizzarri, che lo rivelano pittore di bambocciate.
Dopo due anni, certamente non inattivi, ma dedicati a
tele di nani, eccolo firmare una bambocciata, l’ultima delle tre che recano
una data: L’assedio della fortezza, già nella collezione Robiati
di Milano. Nello stesso anno 1772 dipinge (la notizia è nel volume
del Tassi) la volta del coro nella parrocchiale di Zogno il Valle Brembana;
nella medesima chiesa sarà chiamato l’anno successivo ad eseguire
"quattro quadri laterali dipinti a fresco… rappresentanti le azioni e il
martirio di S. Lorenzo", che saranno tra le sue ultime opere.
Seguiamo ancora il testo del Tassi, che aggiunge notizie
n parte inesatte: "… restituitosi a Bergamo, attaccato da male di petto
a capo di quindeci giorni passò a miglior vita li 20 luglio 1775,
in età d’anni 59; e fu sepolto nella parrocchiale di S. Andrea,
in faccia alla quale abitava" (26).
L’inedito atto di morte, custodito in questa chiesa,
ci rivela l’inesattezza della data. Certo a causa di una polmonite il pittore
morì dopo essersi confessato e aver ricevuto il Viatico e l’Estrema
Unzione, il 19 luglio 1773 "hora diei octava". Il giorno seguente, 20 luglio,
dopo una Messa solenne, il suo corpo fu sepolto "in secundo sepulcro Caponi
de licentia D.ni Caesaris Femj" nella chiesa di S. Andrea (27).
NOTE
1) Il suo cognome è stato variamente
modificato in Alberici, Albricci, Albrizzi, e il nome in Arrigo. La grafia
Enrico Albrici è tuttavia da considerarsi la sola esatta perché
è l'unica che ricorre in tutte le firme autografe del pittore. Nelle
sue opere (eccetto che a Capo di Ponte, ove la formula latina lo induce
a modificare in "Enricus Alberici Civis Bergomi), si firma sempre Enrico
Albrici. <
2) Le "Vite de' Pittori, Scultori ed
Architetti Bergamaschi" di F. M. Tassi furono pubblicate postume nel 1793,
ma l’autore, morto nel 1782, aveva già cessato dal 1777 di dedicarsi
alla loro stesura. Le notizie, che gli erano state fornite soprattutto
dal conte Giacomo Carrara, vennero sempre più saltuariamente aggiornate
fino e non oltre il 1770. Quando, a undici anni dalla morte del Tassi,
gli amici suoi pubblicarono il manoscritto, fu ancora il conte Giacomo
Carrara che si incaricò di scrivere quelle "Giunte che avrebbe volute
distinte in Appendice a ciascuna "Vita", ma che furono invece utilizzate
dagli editori per la compilazione delle note a piè di pagina, alquanto
arbitrariamente, con tagli e posposizioni (cfr. F. Mazzini 1970, "Saggio
biobibliografico" premesso all'edizione critica delle "Vite" del Tassi
e Appendice, passim). La "Vita" di Enrico Albrici, l'ultima tra tutte,
è esposta tanto minuziosamente, da far pensare a una conoscenza
diretta.
È ben noto che il conte Carrara fu colui che,
insieme col Ferronati, aveva incoraggiato il pittore a dipingere bambocciate,
dandogli anche da copiare quelle dell'Everardi e del Bocchi che si trovavano
nella sua galleria. È probabile, quindi, che sia stato lui anche
in questo caso il principale informatore del Tassi prima, e poi, nella
pubblicazione, fonte degli aggiornamenti e della lunga nota, contente le
notizie e le lodi del figlio del pittore, l'abate Giovanni, fisico e matematico,
morto nel 1816, che dimostra di conoscere personalmente.<
3) Cfr. Baradello 1906, II, pp. 91-94
che dà numerose notizie sulla famiglia, ricordandone i più
importanti discendenti del ramo di Vilminore. Aggiunge inoltre che altri
rami della famiglia degli "Albrici nobili veneti" si erano trapiantati
ad Onore prima del 1490 e a Clusone, prima del 1696. Sappiamo inoltre che
un altro ramo si era stabilito ad Angolo: ad esso apparteneva quel nobile
don Giovanni Giuseppe Albrici, zelante e colto prevosto della prepositura
degli Umiliati di S. Bartolomeo di Cemmo, per il quale Enrico eseguì
varie opere tra il 1761 e il 1762. Lo stemma del casato, che un tempo sormontava
a Clusone la tomba di famiglia, è ancora visibile ad Angolo sopra
i portali dei due palazzi appartenuti alla famiglia (cfr. A. Bertolini-G.
Panazza 1984, II, pp. 85 fig. 111, 94 fig. 129) e ad Onore su una Croce
astile datata 1752 conservata nella parrocchiale (cfr. Pagnoni 1979, p.
257). Lo stesso stemma è scolpito a Vilminore sopra il terzo altare
di destra nella parrocchiale, appartenente alla cappellania Albrici ed
è pure dipinto in una tela conservata nella casa parrocchiale dello
stesso paese, raffigurante l'albero genealogico del nobile casato Albrici
(tela cm 170X200, restaurata nel 1981.<
4) Ferdinando del Cairo nacque a Casale
Monferrato nel 1666. Fu dapprima scolaro del padre Giovan Battista, poi
di Marcantonio Franceschini a Bologna. Avendo sposato una bresciana, dal
1701 si stabilì a Brescia, dove morì il 24 ottobre 1743,
a 77 anni. Fu assai attivo e collaborò anche coi pittori emiliani,
ma delle numerose opere ricordate da fonti bresciane quasi nulla si è
salvato: le Sante Caterina da Bologna
e Margherita da Cortona nella chiesa di S. Giuseppe a
Brescia e Quattro figure femminili della Pinacoteca Tosio Martinengo della
stessa città, che non gli sono date con piena sicurezza. Tutte le
fonti bresciane gli assegnano inoltre le rappresentazioni allegoriche di
Virtù affrescate all'interno della cupola della chiesa della Carità
a Brescia, ove poi sarà attivo anche l'Albrici; ma il Boselli, che
pubblica tutti i documenti relativi alle opere di detta chiesa, annotati
con estremo scrupolo, afferma: "non vi è traccia nei nostri documenti
del nome del Cairo, cui dovrebbesi attribuire la parte figurativa della
decorazione" (C. Boselli 1969, p. 96; id. 1974, p. 12). Sul pittore scrive
il Passamani (1964, p. 634) che mostra "un più diretto rapporto
con le forme del bolognese Franceschini e, attraverso costui, del Cignani,
dell'Albani, del Domenichino;...egli è il primo del folto gruppo
di emiliani (per nascita o formazione) che in seguito opereranno a Brescia.
E tanto a lungo vi soggiornò, che non solo passò talvolta
come bresciano, ma fece sentire il suo influsso, cosicché "la più
bella grazia e dolcezza" (Maccarinelli) che lo distingue nelle poche opere
rimaste, d'impronta bolognese, non si ritrova solamente nell'allievo Scalvini,
ma più o meno circola in tutta la pittura locale". Egli poté
"incidere sensibilmente sulla cultura locale diffondendo quel gusto per
la forma aggraziata e il colorito morbido che si ritrova nel Cappello,
nei suoi allievi Scalvini ed Albricci (seppure modificato da esperienze
diverse) fino al Dusi e al Fali" (B. Passamani 1981, p. 15). Inesatta è
la versione sulla vita e l'educazione pittorica dell'Albrici data dal Fornoni:
"… studiò a Bergamo fino a diciott'anni e non so sotto quale maestro.
A ventitré anni lo troviamo a Brescia allo studio di Ferdinando
del Cairo e tre anni dopo lo vediamo dipingere per proprio conto, studiando
i vecchi pittori. Morì a Bergamo il 20 luglio 1775". Probabilmente
questa versione deriva da una sommaria lettura del Tassi.<
5) Giovanna, in tutti i censimenti dal
1729 in poi, sarà sempre definita "fatua" o "semifatua". Era nata
nel 1712.<
6) Maddalena Albrici, figlia di Cristoforo,
fu certo moglie paziente e devota. La troviamo giovane sposa nella casa
dei suoceri insieme col marito, nell'anno successivo al matrimonio e quando
nasce il primogenito. Si allontana da Vilminore solo tra il '44 e il '45
col marito (quando nasce il secondogenito e la famiglia non è censita
in paese accanto ai suoceri: forse col marito era a Brescia o a Berzo di
Valcamonica). In tutti i censimenti successivi, Maddalena sarà sempre
presente a Vilminore, coi suoceri e con la cognata demente, che terrà
presso di sé anche quando i genitori del marito saranno morti. Sarà
sempre censita come "uxor Henrici Brixie habitantis", con una definizione
che sottolinea la sua solitudine. Enrico faceva tuttavia la spola fra Brescia
e Vilminore, come provano la nascita di altri due figli (la prima subito
deceduta) e i numerosi contratti per esecuzione di opere per la parrocchiale
del paese. Maddalena si riunì al marito solo dopo il trasferimento
della famiglia a Bergamo, nel 1763; là morì il 24 febbraio
1782, quasi nove anni dopo il marito. Nell'atto di morte, Maddalena "vidua
relicta q.m D. Henrici pariter Alberici" è detta "mulier vere pia,
quae asmatis morbum summa patientia tulit". L'età "annorum quinquaginta
sex circiter" è errata: aveva invece 67 anni (cfr. Registro Archivio
parrocchiale di S. Andrea, Bergamo). <
7) Giacomo morirà a Bergamo il
3 aprile 1777, a 36 anni "morum innocentia et simplicitate vere singulari,
post diuturnum morbum patienter toleratum" (cfr. Registro Archivio parrocchiale
di S. Andrea Bergamo). <
8) Che la nascita di Giovanni si debba
datare al 1744 (o agli ultimi mesi del '43) è provato dal fatto
che nel censimento del 1747 è detto di anni tre, e inoltre da una
inedita nota inserita nell'ultima pagina del libro "Status animarum 1632
1750" di Vilminore, in cui, in un elenco di nomi di bambini sotto la data
1744, c’è "Giovan Ma:f. di Enrico Albrizi / Giovan f. mesi sei".
Non figura invece nel libro dei battesimi di Vilminore, dove sono registrati
i nomi dei suoi fratelli (oltre a quello di un omonimo). È possibile
che Giovanni sia nato pertanto a Brescia o a Berzo di Valcamonica, dove
lavorava il padre.<
9) Non è attendibile la datazione
degli affreschi di Berzo proposta da A. Sina (s.d.) secondo il quale l'opera
dell'Albrici a Berzo fu eseguita fra il 1740 e il 1743 e sarebbe stata
completata successivamente da quella dello Scalvini da solo nel 1745. Il
Sina ricorda che si pensò di decorare la chiesa nella parte ancora
spoglia intorno al 1739, dietro proposta dell'arciprete A. Bosio che la
scelta cadde su Giovanni (sic) Albrici da Vilminore "che da quel tempo
esercitava la sua arte in Brescia i cui lavori riscuotevano l'applauso
di molti" (la notizia è errata: l'artista rimase a Vilminore dal
1733 fino al 1744; il 1740 è l'anno in cui, secondo il Tassi "dato
bando al divertimento" si rimise a studiare, per sposarsi l'anno successivo;
il 1744 (4 dicembre) è l'anno in cui firmò a Brescia quella
prima ricevuta alla chiesa della Carità che anticipa di un anno
la partenza da Vilminore, che il Tassi datava al 1745). Il Sina invece
afferma che si cominciò ad affrescare la chiesa nel 1740 e desume
la notizia da un verbale della vicinia del 24 aprile 1740 in cui si legge
che i RR Presidenti della chiesa, avendo deciso di ornare la stessa con
pitture, avevano chiesto e ottenuto dalla comunità "la elemosina
del legname per li ponti". Il Sina prosegue asserendo che al pittore fu
proposto di "narrare col pennello tutto ciò che abbia riferimento
sia nell'Antico Testamento che nel Nuovo alla Vergine Santissima" e che
"l'Albrici annuì e messosi al lavoro svolse il vasto tema". Secondo
il Sina sono dell'Albrici tutte le quadrature e praticamente quasi tutti
i dipinti della chiesa, elencati minuziosamente, compresa L'arca di Noè.
Aggiunge quindi il Sina: "Sembra che l'Albrici terminasse il suo lavoro
mentre era vivente il Rev. Bosio, spentosi nel 1743. Il Rev. Pietro Bava
di Breno che gli successe ne continuò l'opera, affidandola nel 1745
a Pietro Scalvini, discepolo, al pari dell'Albrici di Ferdinando del Cairo".
Secondo il Sina le sole opere dello Scalvini sono L’Assunzione nel presbiterio
e le due Virtù della Fede e della Speranza nelle pareti laterali
da lui ritenute sproporzionate. Come già detto, sia per motivi cronologici
che per dati stilistici, queste notizie sono per la maggior parte inesatte.
Anche se i fondi per i ponteggi si andavano raccogliendo nel 1740, l’esecuzione
di tutta l'opera è senz'altro posteriore a tale anno: fu probabilmente
eseguita non in successione, ma in collaborazione da entrambi i pittori,
che la datavano alla fine, sotto un'arcata, "Ottobre 1745". <
10) Michele Angelo, trasferitosi come
tutta la famiglia a Bergamo nel 1763, là sposava il 21 aprile 1775
Taddea Zucchi, appartenente alla sua stessa parrocchia di S. Andrea (cfr.
i registri parrocchiali). Il 13 maggio 1777 gli nasceva un figlio che fu
battezzato col nome di Giovanni Enrico, che ricordava lo zio abate e il
nonno pittore. Il piccino moriva, a soli cinque mesi, il 18 ottobre dello
stesso anno. Michele Angelo era ancora vivo nel 1816 quando si preoccupava
di fare pervenire al Reggente del Liceo di Bergamo l'annuncio della morte
di suo fratello, l'abate Giovanni che in quella scuola era stato addetto
al Gabinetto di Fisica. Nei registri parrocchiali di Bergamo e di Vilminore
non c'è invece nessuna traccia di quel presunto ultimo figlio dell'Albrici
"Guglielmo prete e scombicchieratore di quadri più che pittore"
ricordato solo dal Fornoni che dice di lui: "Rovinò molti dipinti
col pretesto di restaurarli". Questa notizia, che non ha altrove conferma,
pare priva di fondamento. <
11) Giorgio Duranti (1683 - 1775) abate,
cavaliere di nobile famiglia e pittore "dopo un breve periodo fiorista
continuò fino alla morte un'unica rassegna di anitre, galline, tacchini,
per lo più immobili, ritti o accucciati in un’oziosa quanto stupida
vita... Il gusto raffinato degli accordi cromatici e la curiosità
del tema resero apprezzata la sua produzione dal Veneto alla Lombardia"
(B. Passamani 1964, p. 662). Secondo la Calabi (1935, p. 33) ebbe "genuine
e personali qualità pittoriche" ed i suoi volatili sono "attentamente
osservati e rappresentati". Anche l'Albrici dipinse spesso volatili, più
tardi, nelle sue bambocciate. <
12) Su Angelo Everardi, in "Saggi e
Memorie di Storia dell'Arte" della Fondazione Cini, n. 4, Venezia. Faustino
Bocchi, il pittore che ideò le bambocciate di nani, visse tutta
la vita a Brescia (1659-1741). Sulle bambocciate e la loro origine, sulla
vita e l'opera di Faustino Bocchi cfr. in particolare M.A. Baroncelli 1965,
pp. 9-64, 105-114. <
13) M.A. Baroncelli 1965, p. 36.
<
14) Cfr. ms. Queriniano, K V 4; ms.
1 pubblicato da M.A. Baroncelli 1965, p. 104. <
15) Si firmava "Nobile Reverendo" perfino
sulla campana di S. Maria di Malegno (cfr. A. Bertolini-G. Panazza 1980,
I, p. 135). La campana, collocata nel 1798, dal prevosto di Cemmo pagata
L. 630, reca la seguente scritta "A. 420 CONDITA A P.P. / HUMILIATIS HUIUS
PRAEPOSITI / ECCLESIAE / FONDAT. / RENOVATA A.D. 1792 / A. NOB. REV. D.
IOSEPHO PRAEP / ALBRICCI...". Si vedano comunque su di lui Opere disperse.<
16) Lo stemma del ramo degli Albrici
di Angolo era lo stesso di quelli di Vilminore (un castello con due torri
sormontate da un leone inleopardito e da una ruota; cfr. nota 3).<
17) Sulla nascita di Giovanni avvenuta
tra il 1743 e il 1744 fuori Vilminore, cfr. la nota 8. Una delle "Vite"
del Tassi, redatta quasi certamente dal Carrara, e che dimostra una diretta
conoscenza della persona e degli avvenimenti, ci informa su di lui: unico
fra i tre fratelli "attese alcun poco al disegno, e ricopiò alcune
opere del padre, ed altre da lui lasciate imperfette ha condotte a fine:
e mercé la diligenza in esse usate possono essere applaudite. Ciò
però che lo ha distinto è il suo genio particolare nelle
cose fisiche, e matematiche, nelle quali si può dire che senza scorta
alcuna, ma con la sola sua industria, ha fatto grandi progressi". Il Carrara
si diffonde a elencare una serie di congegni da lui inventati per il gabinetto
di fisica sperimentale delle pubbliche scuole di Bergamo, che gli fu affidato
fin quasi alla morte, avvenuta il 12 aprile 1816. Un piccolo planetario
fu da lui costruito anche per uso dei figli di S.A.R. l'arciduca Ferdinando,
e riscosse l'approvazione dei regi astronomi della Specola di Brera che
l'avevano preventivamente esaminato e controllato. Ne eseguì anche
uno più grande, oggi conservato nella biblioteca del liceo "Paolo
Sarpi" in Bergamo; nel 1775 costruì, per conto dell'Accademia Economico-Arvale
della città, un aratro-seminatore come quelli in uso allora in Francia,
Inghilterra e Toscana (cfr. "Atti dell'Accademia", vol. 68r, 9 marzo 1795,
ms. VII, 7 ora 5/142, Biblioteca Civica, Bergamo). La sua opera più
nota è tuttavia la meridiana, collocata nel 1798 nel portico sottostante
al Palazzo Vecchio, che fu la prima d'uso pubblico esistente a Bergamo.
L'anno successivo 1799 "ad alcuni dell'ignorante volgo parve scorgere in
essa un simbolo della rivoluzione" e si tentò di distruggerla. Giovanni
Albrici pertanto procedette a una verifica nel 1806, ma essa risultò
"affatto precisa" perché "la solidità della costruzione erasi
mostrata superiore alla vandalica forza dell'ignoranza" (cfr. "Notizie
Patrie" 1859, pp. 80-87). Se della sua attività scientifica c'è
larga testimonianza, di quella artistica ben poco è invece rimasto,
anche perché pare che egli non abbia apposto firme. Secondo Elia
Fornoni si devono a lui opere che dimostrano un legame con l'avita Val
di Scalve (Fornoni, "Dizionario Odeporico" ca. 1920, XVI, p. 92 e XIX,
p. 652). Suo è, nella parrocchiale di Vilminore, il Capocielo assai
fastoso, che ben si intona alla grandiosità della chiesa. Esso racchiude,
tra fiocchi e volute, cesti di fiori e frutta e finte cornici, l'unica
tela certa dei pittore: un Padre Eterno benedicente circondato da teste
d'angioletti, dipinto con cromatismo vivace e buona prospettiva, ma inadeguato
a chiarire la personalità dell'artista. Giovanni Albrici è
autore anche dei disegni di due opere per la chiesa di Schilpario: un bell’ostensorio
giudicato dal Fornoni "degno di una cattedrale", che andò perduto
in un incendio nel 1937, e la macchina del Triduo, che invece esiste tuttora.
L'imponente costruzione lignea, che rivela grandiosità di concezione,
fu ideata dall'artista quando era ancor vivo il padre e realizzata nel
1770 da Pietro Pizio di Schilpario: essa conferma il gusto per le opere
fastose e decorative. L'abate Giovanni Albrici, colpito da sincope, morì
improvvisamente la sera della domenica 10 novembre 1816, mentre, nella
chiesa di S. Michele al Pozzo Bianco, assisteva ai Vespri. Aveva settantatré
anni. Le notizie relative alla morte si ricavano da una lettera scritta
da un conoscente a nome del fratello e indirizzata al Reggente del R. Liceo
di Bergamo presso il quale egli era stato addetto al Gabinetto di Fisica;
risultano pure dall'atto di morte conservato nei registri della parrocchiale
di S. Andrea, presso la quale aveva abitato tutta la famiglia. Egli fu
sepolto il 12 novembre, fra l'universale compianto di chi aveva apprezzato
le sue doti di artista, di studioso, di sacerdote e di uomo.<
18) Cfr. nota 2.<
19) La notizia dell'esistenza di bambocciate
dell'Everardi nella galleria del conte Giacomo Carrara è assai importante,
perché è l’unica testimonianza che prova che quell'artista,
maestro di Faustino Bocchi, abbia dipinto opere di quel genere pittorico
e ne sia stato l'iniziatore (cfr. M.A. Baroncelli 1965 p 17).<
20) Aveva una sorella sempre def1nita
nei censimenti di Vilminore "fatua" o "semifatua" (v. nota 5).<
21) L'argomento era di vivissima attualità:
la "Frusta letteraria" del Baretti, uscita il 1° ottobre 1763, veniva
soppressa nel 1764 dopo 25 numeri per il fastidio e lo scandalo che aveva
sollevato; il critico fece uscire altri otto numeri ad Ancona proprio nel
1765, prima di sospendere definitivamente la pubblicazione. Il "Bue pedagogo"
dell'abate Buonafede di Comacchio fu pubblicato a Bologna nel 1764. Il
"Mattino" del Parini era stato pubblicato nel 1763, il "Mezzogiorno" nel
765.<
22) Pietro Scalvini (Brescia 1718-1792)
"tra i decoratori bresciani è certamente il più dotato di
gusto e fantasia... La sua prima formazione avviene con Ferdinando del
Cairo, cui si deve quella versione della bellezza fragile e un poco manierata
per la quale i volti e i corpi delle sue figure hanno il profumo d'una
delicata giovinezza muliebre e le espressioni sono addolcite da teneri
sottintesi. Tale impronta è controllabile lungo tutto il laborioso
corso della sua pittura... fino alle varie decorazioni per i palazzi dell'ultimo
periodo. Essa rimane malgrado le sovrapposizioni di Carloni, Pittoni, Tiepolo
dalle quali gli vengono, specie verso la fine, l'arditezza degli scorci
e delle messe in scena" (Passamani 1964 pp. 654, 655). Secondo P.V. Begni
Redona "della formazione alla scuola di Cairo non sembra esserci nelle
opere giovanili molta evidenza riscontrabile… Non sembra... che lo Scalvini
abbia avuto molto da soffrire a causa dell'ambiente poco stimolante del
maestro, che imparò da sé e ben presto, a guardare con occhio
avido e attento quello che avveniva nel vasto panorama della cultura pittorica...
La sua sterminata produzione (che fortunatamente fornisce in abbondanza
firme e date) non ha una ben definita linea evolutiva... i pochi studiosi
che di lui si sono interessati fino ad ora, hanno tentato di fare un inventario
delle sue fonti e di catalogare i molti imprestiti derivatigli dal Ricci,
dal Pittoni, dal Carloni, dal Quaglio, dal Tiepolo senza disdegnare nemmeno
il Fontebasso ed il Longhi... Allo scoccare degli anni Cinquanta lo Scalvini
ottiene anche le commissioni di imprese a fresco di grande respiro e per
più di un trentennio non conoscerà rivali, in ambito locale
almeno per foga ed estro decorativo (cfr. AA.VV. 1981, pp. 74-75).<
23) Nel 1745, quando il pittore lavorava
a Berzo con lo Scalvini, era assente da Vilminore anche la moglie col primogenito
e il piccolo Giovanni, che nacque probabilmente a Brescia o proprio a Berzo
(cfr. note 6 e 8); non è improbabile pertanto che lo Scalvini conoscesse
Maddalena Albrici.<
24) Questa data 1768 è ovviamente
perciò anche quella in cui il Tassi ricevette le notizie che poi
si pubblicarono: il quadro è ricordato come eseguito "ultimamente"
(Questa parola è riferita tuttavia anche alla Trasfigurazione, che
noi sappiamo dipinta a Bergamo nel 1763). Certo è che il Tassi avrebbe
citato anche la seconda tela, La caduta di Simon Mago, se fosse stata già
eseguita, visto che ricorda minuziosamente il soggetto di tutti gli altri
quadri dell'Albrici nella parrocchiale di Vilminore.<
25) Ben sappiamo (v. nota 2) che il
Tassi in quegli anni si dedica va saltuariamente alla stesura delle "Vite",
interrotta nei suoi aggiornamenti proprio negli anni 1768 - 1770 (cfr.
F. Mazzini 1970). Ne è una prova la frammentarietà delle
notizie relative a questi anni. Il testo del Tassi ricorda a Vilminore
S. Pietro risana lo storpio (1768) e non La caduta di Simon Mago (1769,
cfr. nota 24); ricorda le Medaglie di Clusone (1769-70) e non l'impegnativa
decorazione della chiesa di Capo di Ponte datata 1770. Questo vuoto si
colma più tardi, quando invece il testo del Tassi viene aggiornato
sugli affreschi di Zogno (1772-73) di cui si parla perché sono legati
alla morte del pittore, avvenuta quindici giorni dopo che furono terminati.<
26) La documentazione del libro del
Tassi è di nuovo esauriente e meticolosa riguardo al giorno della
morte, o meglio dei funerali, e circa la sepoltura e l'abitazione del pittore.
L'errore sull'anno di morte, 1775 anziché 1773, è probabilmente
dovuto alla stampa, perché il defunto pittore è detto con
esattezza di anni 59, età che aveva appunto nel 1773 (e non nel
1775) essendo nato nel 1714. Le notizie sul figlio del pittore, Giovanni,
che chiudono non solo la "Vita" dell'Albrici ma anche il libro del Tassi,
sono in nota a pie' pagina, e sono dunque del Carrara.<
27) La casa di fronte alla chiesa di
S. Andrea doveva essere di proprietà della famiglia, se nel 1816
il sacerdote Giovanni Albrici, figlio del pittore, apparteneva ancora a
quella parrocchia, nella quale venivano officiati i suoi funerali. Nei
registri parrocchiali di S. Andrea si possono seguire le vicende della
famiglia successive alla morte del pittore (v. note 6, 7, 10, 17).<
BIBLIOGRAFIA
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1793 F. M. Tassi, Vite de’ Pittori, Scultori e Architetti
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1823 A. Brasi, Memoria storica intorno alla Valle Seriana
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1988 Catalogo Asta Finarte, n. 652, 14 giugno, lotto
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(Maria Adelaide Baroncelli, I pittori bergamaschi, vol. Il Settecento III, pp. 107-117)