ENRICO ALBRICI
La vita
di Maria Adelaide Baroncelli
(in I pittori bergamaschi dal XII al XIX secolo, il Settecento III, Bergamo, Bolis, 1990).

Le notizie sulla vita dell’Albrici (1) si desumono principalmente da due fonti: i numerosi documenti che qui si pubblicano, quasi tutti per la prima volta, e l’opera di Francesco Maria Tassi, contemporaneo del pittore che ne scrisse la biografia con ricchezza di particolari (2).
Enrico nacque a Vilminore in Val di Scalve da Maffeo e Margherita il 19 novembre 1714 e fu battezzato il giorno stesso, come risulta dall’inedito atto di battesimo conservato nel suo paese natale. La famiglia dalla quale discendeva era antica, cittadina di Bergamo e di Brescia, ridotta negli ultimi tempi a limitate sostanze (Tassi p. 110). Figurava nei documenti fin dal 1362: gli Albrici di Val di Scalve erano stati di parte guelfa e il loro stemma era costituito da "un castello a due torri sormontato da un leone inleopardito e da una ruota" (3). Afferma il Tassi "Scoperta nel giovane figlio, il quale altro non faceva che schiccherar fantocci col carbone, o altra materia, la grande inclinazione che aveva alla pittura lo misero i suoi genitori tosto sotto la direzione di Ferdinando Cairo, noto pittore di Casale Monferrato (4) che in quel tempo era stanziato in Brescia, sotto del quale si mise Enrico con tutto lo spirito a studiare il disegno, in modo che a null’altro attendeva fuori che a suonare alcuna volta il cembalo per sollevarsi dallo studio indefesso, che faceva per apprender la pittura. Dimorato circa tre anni in Brescia sotto un tale maestro, fu con suo molto danno chiamato da’ genitori alla patria; dove tutto che alcune operette facesse sì pubbliche che private, tuttavia non solo non si avanzava nell’arte sua distraendosi dallo studio, e dandosi con gli amici al bel tempo, ma s’accorse che molto andava perdendo di quanto sotto il maestro aveva acquistato. Per la qual cosa l’anno 1740, dato bando a’ divertimenti ed al suono, prese di nuovo con calore lo studio della pittura, disegnando e leggendo libri, che di quella trattano, e spezialmente le opere di Leon Battista Alberti, e del Vinci. Fece quindi altre opere, ma come le prime di non molto merito".
I tre anni di studio alla bottega di Ferdinando del Cairo furono importanti per la formazione pittorica dell’Albrici, che in seguito fu solo autodidatta e non frequentò altri maestri. Molte notizie interessanti ed inedite su questi anni si desumono dall’Archivio parrocchiale di Vilminore, nel quale si trova il nome di Enrico con quelli dei genitori e di una sorella di due anni più vecchia di lui, Giovanna, quasi demente (5).
Presente in tutti i censimenti fino al 1730, Enrico non appare in quello del 1731, per riapparire nel 1733. Fra il ’30 e il ’33, dunque, si può datare il primo periodo bresciano dell’Albrici presso il Cairo.
Il 14 agosto 1735, all’età di quasi 21 anni, egli riceve la Cresima a Vilminore, insieme a un cospicuo numero di altri giovani del paese; è poi sempre presente coi genitori e la sorella nei successivi censimenti, fino al 1740. In quell’anno, dopo gli ozi e gli svaghi, secondo il Tassi si mise a studiare di lena: e ciò è comprensibile, perché il giovane aveva in animo di sposare una coetanea anch’ella di Vilminore. Apprendiamo infatti dall’inedito atto di matrimonio che il 10 luglio del successivo 1741 si celebravano le sue nozze con Maddalena(6), figlia di Cristoforo Albrici. Nel 1742 i due sposi (di anni 27) sono censiti nella casa paterna, coi genitori e la sorella di Enrico; l’8 agosto dello stesso anno nasce Giacomo Maria(7), il loro primogenito, come risulta dall’inedito atto di battesimo.
Nel periodo successivo è difficile seguire i movimenti della famigliola del pittore. Negli ultimi mesi del 1743, o nei primi del 1744, nasce il secondogenito Giovanni, futuro abate e gloria della famiglia: ma, contrariamente ai fratelli, non viene battezzato a Vilminore (8); l’assenza della famiglia dal paese è provata anche nel 1745, quando Enrico, la moglie e i figli, non sono presenti al censimento, nel quale figurano invece i vecchi genitori e la sorella.
Il pittore sta infatti eseguendo, lontano dalla Val di Scalve, le sue prime opere "importanti" e retribuite: firma infatti a Brescia, il 4 dicembre 1744, la ricevuta di £ 46 per l’esecuzione delle due finte statue dell’ordine superiore nella chiesa della Carità e, nell’ottobre 1745 pone, insieme con lo Scalvini, la data nella chiesa di Berzo di Valcamonica, dopo avervi ultimato l’imponente lavoro per la decorazione dell’interno (9). Si può supporre che l’Albrici avesse portato con sé la famiglia in questi suoi primi spostamenti. Le notizie d’archivio, dunque, smentiscono e anticipano la datazione del Tassi, secondo il quale l’Albrici si allontanò da Vilminore solo nel 1745: "spinto dal desiderio di sempre più avanzarsi nell’arte, si portò di bel nuovo a Brescia nel 1745; ove con suo notabile dispiacere non ritrovando più il suo maestro Cairo, si mise con tutto l’impegno a studiare da sé, disegnando e copiando da’ migliori quadri di quella città con molto profitto". L’arrivo a Brescia è da porsi invece fra l’ottobre 1743 (data della morte del maestro) e il 4 dicembre 1744 (data della prima ricevuta alla chiesa della Carità).
Il 7 novembre 1745, di ritorno da Berzo, è di nuovo a Vilminore, dove si impegna ad eseguire la Crocofissione di S. Pietro a fresco sulla controfacciata per tutta l’estate successiva. L’estate del 1746, dunque, il pittore rimane presente a Vilminore per dipingervi quell’affresco e "una tela" come pattuito.
Comunque, nonostante questi inediti contratti ci provino i lunghi soggiorni anche a Vilminore, la vita e il lavoro dell’Albrici si svolgono ormai a Brescia, come sottolinea il Tassi.
Nonostante la delusione per la morte di Ferdinando del Cairo, che lo ha privato del maestro, l’Albrici cerca di migliorare la sua tecnica con quella tenacia e con quella volontà che non lo abbandoneranno più per tutta la vita. Raggiunge dei buoni risultati "disegnando e copiando": questo suo metodo di autodidatta lo porta ad essere stimato e apprezzato anche da altolocati committenti.
"Fu creduto capace di dipingere alcuni sott’insù di casa Ugeri" (Tassi), gli vengono commissionate altre due finte statue a chiaroscuro nel primo ordine della facciata della chiesa della Carità (firma per esse la ricevuta di £ 38 l’8 luglio 1746), e sempre a chiaroscuro affresca due medaglie e sei statue laterali ai quattro altari del santuario di S. Maria dei Miracoli (1746 e 1747). Il monocromo diventa in quegli anni la sua specialità: viene perciò chiamato ad eseguire, con questa tecnica, "molti ritratti di letterati ed uomini illustri" dal cardinale Querini, che in quegli anni stava erigendo la biblioteca, che avrebbe poi donato alla città. I medaglioni, dipinti sulle pareti della sala di lettura, oggi non più visibili perché nascosti da scaffalature, furono certo motivo di delusione per il pittore. Infatti l’11 marzo 1747, a lavoro ultimato, egli presentava il suo conto al cardinale Querini: £ 196 per i 28 ritratti a £ 7 ciascuno. L’indomani egli veniva puntualmente pagato, ma con notevole sconto: ogni ritratto era saldato "in picollo" a sole £ 6, per complessive £ 168.
Questo mercanteggiare del grande mecenate sull’opera del giovane pittore, lontano da casa e con carico di famiglia, potrebbe far pensare all’insoddisfazione del committente per l’opera eseguita. Contrasta invece con questa supposizione il fatto che, come scrive il Tassi, l’Albrici fu più tardi ripetutamente all’opera per il cardinale stesso "del quale fece in diversi tempi molti ritratti, per mandare a diverse Accademie d’Italia, e d’oltra monti" (prima della morte del cardinale avvenuta nel 1755).
Il pittore veniva inoltre prescelto, insieme con Bortolo Scotti, per eseguire fra il 1752 e il 1753 il ciclo di affreschi voluti dai Deputati pubblici della città di Brescia per dimostrare la gratitudine verso il Querini e che dovevano riprodurre i fatti salienti della sua vita in tondi a monocromo lungo lo scalone della biblioteca. L’Albrici da solo poi affrescava, nel 1753, alla sommità della prima rampa, la finta statua a monocromo che coronava l’opera di esaltazione del cardinale, simboleggiandone la "sapienza".
Tra queste opere per la biblioteca, i ritratti del ’47 e l’allegorica statua del ’53, intercorrono anni fervidi di una attività quasi frenetica.
Già nel 1747 erano state eseguite, oltre alle citate finte statue della chiesa dei miracoli, anche gli affreschi, oggi perduti, ricordati dal Maccarinelli, raffiguranti una Crocifissione in un andito fra il Broletto e la nuova cattedrale e i Miracoli di S. Liborio nella cappella del Santo allora esistente nel duomo vecchio.
Sono del 1747 i tre Santi (perduti) affrescati nella chiesa dei Santi Cosma e Damiano e gli Angioletti che dovevano rendere più liete le quadrature della volta di quella chiesa: anzi il Maccarinelli giudica quelli dell’Albrici i più belli di tutti.
C’è a Brescia un fervore di opere, un intrecciarsi di nomi di artisti che lavorano contemporaneamente e che si scambiano le loro esperienze. Sono di quegli anni alcuni dipinti dell’Albrici anche fuori Brescia. Il Tassi ricorda che "chiamato indi in Valcamonica ebbe a dipingere in varie chiese": qui menziona erroneamente gli affreschi di Berzo, che in realtà sono datati, come già detto, "ottobre 1745"; ricorda inoltre che "ancora in Borno nella chiesa parrocchiale dipinse la rotonda sopra il coro, in cui rappresentò S. Gio. Battista in gloria, ed a basso li quattro Profeti". Sappiamo che quel coro, poi demolito, era già costruito nel 1747.
Mentre il pittore lavora con grande impegno a Brescia e in Valcamonica, la sua famiglia abita a Vilminore. Nel 1747, con i suoi vecchi genitori e la sorella demente, risiede la moglie "uxor Henrici fili Brixie habitantis", insieme coi figlioletti Giacomo di 4 anni e Giovanni di 3. Nel paese, il 17 luglio 1748 nasce la piccola figlia Maria Margherita, che non sopravvive. Là nel censimento del 1749 il pittore risulta ancora assente, abitante a Brescia.
Nella città l’Albrici inizia a dipingere, nello stesso 1749, quel ciclo di tele a olio che lo vedranno attivo per parecchi anni nel santuario di S. Maria dei Miracoli, e che verranno poi in parte distrutte dal bombardamento del 1944. Tra le cinque lunette su tele sagomate, due portano le date 1749 e 1750; tra i sette quadri di diversa grandezza uno, probabilmente l’ultimo, è datato 1754.
Il 29 febbraio 1750, di notte, nasce a Vilminore il figlio Michele Angelo (10), e il pittore, almeno questa volta, è presente in paese anche al momento del censimento. Sono ormai morti tutti e due i genitori ed accanto ad Enrico (q. Maffei) e a Maddalena (q. Christophori Alberici) si trovano i figli Giacomo di 7 anni, Giovanni di 6 e Michele Angelo "infans". Abita con loro la sorella del pittore Giovanna.
Sempre attivo a Brescia, l’Albrici firma nel 1752 due opere ricordate dal Maccarinelli: l’affresco riguardante S. Cristoforo nella chiesa omonima e la tela S. Gerolamo Miani che assiste un agonizzante nell’infermeria dell’ospedale maggiore, oggi entrambe perdute.
Vero pendolare del pennello, il pittore non dimentica mai il suo paese d’origine. Il 28 settembre 1753 è a Vilminore, dove si impegna ad eseguire nella primavera dell’anno seguente, per £ 450, i quattro grandi affreschi sulle pareti laterali della parrocchiale, come risulta dall’inedito contratto.
Il 1754 è un anno ricco di opere e di attività. Nella primavera, come pattuito, l’Albrici dipinge per la sua chiesa i quattro grandi affreschi, ponendo sull’ultimo la data appunto 1754; la stessa data figura anche nel santuario di S. Maria dei Miracoli a Brescia nella tela già ricordata che raffigura la Consegna delle chiavi a S. Pietro e a Gorno, dove la firma "ENRICO ALBRICI pins. 1754" si trova nella Visitazione della parrocchiale. Probabilmente contemporanee sono anche le lunette e i Profeti della chiesa di S. Alessandro in Brescia.
In tale intensa attività gli è d’aiuto, come ricorda il Tassi, l’amicizia del conte abate Giorgio Duranti (11), pittore di volatili, "di cui era in molta grazia" e dal quale "fu introdotto a dipingere in diverse chiese del bergamasco, ed in varie case ragguardevoli di Brescia, cioè in casa degli Ugeri, Martinengo, Colleoni, Avogadro, ed altri, palchi ossia soffitti a fresco né loro palazzi". Se gli affreschi (o le quadrature?) dipinti dall’Albrici nei palazzi bresciani sono oggi scomparsi o difficilmente identificabili, l’esattezza delle parole del Tassi è invece provata dalla già ricordata tela di Gorno, che conferma l’aiuto dato dal Duranti all’Albrici per dipingere "in alcune chiese del bergamasco".
Porta la data 1757 La caduta della manna sulla controfacciata della parrocchiale di Barzesto in Val di Scalve e quella 1761 l’affresco nella chiesa di Lizzola in Val Seriana, dipinto sulla parete accanto alla bella pala dell’altare maggiore da lui firmata.
Nello stesso anno, da Brescia, l’Albrici invia una inedita lettera, molto interessante, che ci apre un nuovo spiraglio sulla futura attività del pittore.
La lettera spedita da Brescia il 9 aprile 1761, è oggi custodita nell’Archivio dell’Accademia Carrara, cosa che prova l’importanza che il conte Giacomo gli attribuiva: ma non è indirizzata al conte stesso, bensì a Ludovico Ferronati, intenditore bergamasco dedito al collezionismo, a scambi e forse anche al commercio di opere d’arte. In essa l’Albrici lamenta di essere importunato da un certo veronese che insiste presso di lui perché sia intermediario di un baratto tra due quadri di pigmei e "numero 30 di carte vecchie" che si trovano presso il Ferronati. L’Albrici dovrebbe spedire a Bergmo i due quadri e riceverne in cambio le carte.
Non è chiaro se i due quadri di bambocciate offerti dal veronese al collezionista siano opere dell’Albrici o di altro autore. Certo è che il pittore aggiunge: "…con molto tempo che avevo pensiero di ritocarli ma sin ora non li hò fatto niente. Ma quando verò a Bergamo sé resteranno a V. Sig. gli voglio Fare diverse mutazioni". Si tratta di vecchie tele da restaurare o di primi tentativi del pittore? L’Albrici si dichiara pronto a farvi dei mutamenti qualora il Ferronati trattenga le tele presso di sé.
Questa lettera anticipa di due anni la data in cui si credeva che l’Albrici avesse iniziato a interessarsi di quadri di nani. Il Tassi, infatti, dice che solo dopo il 1763 "giunto a Bergamo si mise a dipingere quattro quadri di pigmei" che furono visti e apprezzati dal conte Carrara e dallo stesso Ferronati, che lo incoraggiarono a proseguire. Questo scritto ci rivela invece particolari diversi: il pittore dimostra una conoscenza di quadri di pigmei che risale agli anni bresciani, e quindi precedenti al suo trasferimento a Bergamo, città dove i due collezionisti lo sollecitarono a divenire pittore di bambocciate.
Non è fatto che ci meravigli. A Brescia era fiorita l’arte di Faustino Bocchi, allievo di Angelo Everardi, detto il Fiammenghino (12) e iniziatore di quel genere. Là erano nate le bambocciate di nani e vi avevano riscosso un enorme successo. Il Bocchi era morto il 27 aprile 1741, e il giovanissimo Albrici poteva averlo incontrato nel suo primo soggiorno bresciano del 1730-33, quando frequentava la bottega di Ferdinando del Cairo.
Le bambocciate a Brescia erano notissime e ricercatissime. Basti ricordare che "quando, nel 1729, Filippo Iuvara venne a Brescia per dare consigli su un particolare tecnico per la costruzione del duomo nuovo, che stava allora sorgendo, i Deputati della fabbrica del Duomo gli offrirono in dono 24 zecchini e 6 bambocciate del Bocchi. Lo Iuvara rifiutò gli zecchini, ma accettò invece i quadri" (13).
Sappiamo inoltre, come scrive un contemporaneo, che numerose famiglie nobili bresciane possedevano "delle storie capricciose di pigmei" e, fra le altre, la nobile famiglia Uggeri ne aveva "alcuni pezzi originali assai belli" (14): si tratta della stessa famiglia nel palazzo della quale l’Albrici era stato chiamato ad affrescare a Brescia i suoi primi "sott’insù".
Non è dunque necessario soffermarsi ulteriormente a sottolineare come la conoscenza delle bambocciate derivi all’Albrici dall’ambiente bresciano, anche se è attendibilissima la notizia del Tassi che l’incoraggiamento a tentare e a proseguire in questo genere di pittura gli sia venuto poi dall’ambiente bergamasco, dove i quadri di nani costituivano una novità, conosciuta fino ad allora solo dai più aggiornati intenditori.
Nella lettera già citata si rileva anche un curioso particolare di vita quotidiana: la distrazione e la dimenticanza di un ombrello. L’Albrici prega il Ferronati di riverirgli un certo signor don Bonifazio, al quale dovrà inviare un disegno non ancora finito, e gli manda a dire: "la sua ombrella lo ancora a Scalve quale sé verò da quella parte gliela portarò". È facile dimenticare un ombrello, per un uomo che passa la vita tra continue peregrinazioni!
In quegli anni, tra l’altro, lavora anche per un committente di riguardo, un suo lontano parente, del casato degli Albrici di Angolo. Il pittore annota, a più riprese, tra il 1761 e il 1762, sul verso di un disegno preparatorio per una Via Crucis i suoi crediti verso il "N.ob.Sig. D. Gio: Giuseppe Albrici", che si può identificare in quel parroco di S. Bartolomeo di Cemmo che lasciò traccia della sua opera di uomo colto, zelante, ma non certo privo di orgoglio (v. nota 15). Per lui dipinge quadri di soggetto religioso (ricompensati con "elemosine di Sante Messe" e "robba"), ma soprattutto ritratti e copie di ritratti di personaggi della famiglia, vivi e defunti, e perfino lo stemma nobiliare da ostentare su un vecchio ritratto della "nob. Sig.ra Camilla fu sua madre" che ne era sprovvisto.
Il pittore, certamente "parente povero", nomina con molta deferenza i personaggi del casato, e definisce come "armi di sua casa" lo stemma, che era lo stesso della propria famiglia (16).
Enrico Albrici si avvicina ormai ai cinquant’anni, ha problemi di salute ("ogni due – tre anni per la troppa applicazione direi quasi impazziva", ricorda il Tassi), e tuttavia continua la sua vita di lavoro febbrile lontano dalla famiglia, sempre costretto a spostarsi da un luogo all’altro percorrendo e ripercorrendo soprattutto le vie che da Brescia portano alle valli Camonica e di Scalve, strade di montagna circondate da picchi nevosi, strade che a quei tempi dovevano essere impervie e disagevoli. Sono di questi anni tante opere, che lo vedono attivo in vari paesi non lontani dal suo, a dipingere Madonne e santi per la fede devota dei valligiani. "Era amatissimo dell’arte sua a segno che non cessava dal lavoro, così che anche di notte o dipingeva o disegnava" (Tassi).
Nonostante ciò, tante erano le commissioni, che a stento riusciva a tener fede ai suoi impegni. È del 26 luglio 1762 una lettera che gli viene indirizzata da Esine in Valcamonica, e che subito il pittore utilizza per schizzarvi disegni sul recto e sul verso. Gliela spedisce un certo Antonio Fusi, sicuramente l’intagliatore bresciano che aveva eseguito gli ornati dell’organo nella parrocchiale di quel paese, che diplomaticamente elogia la sua "selebra mano", e gli promette altre commissioni se si affretterà a terminare una Via Crucis che evidentemente andava per le lunghe: "onde più presto conducerà la Via Crucis che da noi tutti è deziderata ci darà anche lordine di dette opere".
Ma ormai i tempi sono maturi per una decisione importante: il trasferimento a Bergamo di tutta la famiglia, nel 1763, quando Giovanni, il secondo dei tre figli, futuro abate, fisico matematico, deve recarsi in quella città "per farsi prete" (Tassi) (17).
Abbiamo visto che nella lettera al Ferronati l’Albrici accennava a una sua venuta a Bergamo nell’aprile del 1761: forse già da allora pensava a risiedervi "lusingandosi che l’aria di Bergamo essergli potesse più omogenea, e salubre di quella di Brescia, dove sofferti aveva molti incomodi, e sopra tutto riscaldamenti di testa, che gli cagionarono anche alterazioni di mente". (Tassi).
Alla sua salute avrebbe dovuto giovare, tuttavia, più che l’aria di Bergamo, la vicinanza e l’assistenza della famiglia. In quella città, nello stesso anno 1763, esegue la Trasfigurazione per la parrocchiale di Vilminore "per 65 scudi come da scrittura 13 luglio 1763" (come scrisse il Fornoni, che non si sa dove abbia attinto la notizia).
Nella nuova residenza, il pittore ha quel fortunato incontro che sarà decisivo per la sua carriera artistica. Dice il Tassi (ma la notizia è del Carrara) (18) che "giunto in Bergamo si mise a dipingere quattro quadri di pigmei, sul gusto del Bocchi; i quali tutto che in parte secchi e stentati, pure dimostravano la di lui disposizione a divenir in tal genere di pittura molto valente. Veduti questi dal Sig. Co. Giacomo Carrara e da Lodovico Ferronati dilettantissimi di pittura, molto lo animarono a continuare a dipingere sì fatte ridicole bambocciate, alle quale trovavasi egli di sua natura disposto, e inclinato per certo tal qual estro buffonesco, che in lui nasceva particolarmente quando gli si riscaldava la testa, e in certo modo impazziva. Si mise perciò a copiare diverse opere dell’Everardi, e del Bocchi, che in buon numero ritrovavansi nella galleria del Co. Giacomo Carrara. Con la scorta delle quali migliorò a segno di non cedere in eccellenza a quelle del Bocchi medesimo" (19). Copia dunque, come aveva fatto quasi vent’anni prima a Brescia, quando non vi aveva trovato più il suo maestro, e come allora raggiunge ottimi risultati. Ecco che si sparge la notizia, la novità fa moda e il pittore è nuovamente sommerso dalle richieste dei committenti: dipinge bambocciate per la nobiltà e per l’alta borghesia della città a fresco e in tela, e perfino su un cocchio "per l’aggradimento universale del quale ebbe moltissime commissioni di tal genere".
Il Tassi elenca minuziosamente nomi di committenti della città, descrive i soggetti delle tele, esaltando con compiacimento l’originalità delle invenzioni, "espresse con tale vivezza, che nulla più. Per la qual cosa sommamente dilettano chiunque, e son da’ dilettanti con ansietà ricercati tali quadri e comperati a caro prezzo". Questa testimonianza ci prova un nuovo lavoro stressante per il pittore, ma anche il benessere economico. Aggiunge infatti più oltre il Tassi che egli "molto contento si ritrovò di essersi stanziato in Bergamo, dove da’ dilettanti essendo molto gradite le sue opere, spezialmente di pigmei, ebbe continue commissioni, sicché con difficoltà poteva arrivare a servir tutti". "Vari pezzi" di questo genere inviò perfino "a Torino ed a Milano per diversi cavalieri".
Soddisfazioni, agiatezza, considerazione da parte dei nobili committenti, rispettabilità, una casa in città di fronte alla chiesa di S. Andrea, un figlio che si distingue negli studi e che sta per diventar prete… tutto pare ora risolto, eccetto le condizioni di salute del pittore, che risentono dell’eccessiva fatica, e forse anche di tare familiari (20) o, perché no?, di quell’avvelenamento da piombo che la dimestichezza con le biacche produce talvolta.
Il pittore "fu di ottimi costumi", ma a causa del suo lavoro, che si protraeva fino alle ore della notte, "ogni due o tre anni per la troppa applicazione direi quasi impazziva, e in tale tempo diveniva prodigo, e spendeva quanto di denaro si ritrovava, in divertirsi mangiando e sonando, e trastullandosi, chiacchierando con un ciarlatano, con la testa piena di idee signorili e grandiose a segno che diceva di volere in Vilminore presso sua casa fare un teatro per commedie, ed opere in musica, per divertire que’ rozzi villani: ma mancandogli poi il denaro cadde giusta il suo solito in malinconia, dalla quale dopo alcuni giorni riavutosi, tornò a dipingere" (Tassi). Notiamo in questa alterazione mentale, con stato di eccitazione e di depressione, il riaffiorare di un’antica passione dell’artista: quello per la musica, suo svago preferito fin da quando, ragazzo a Brescia alla bottega di Ferdinando del Cairo, "a null’altro attendeva fuori che a suonare il cembalo per sollevarsi dallo studio indefesso" (Tassi).
A Bergamo le bambocciate di nani lo portano a contatto con una committenza diversa da quella con cui aveva avuto a che fare tutta la vita, costituita da parroci, sindaci di chiese, cardinali e cugini avari o altezzosi. Le sue tele di nani erano destinate agli scintillanti salotti dove, fra dame e cicisbei imparruccati, c’era anche un’élite colta che discuteva di storia, di arte e di letteratura.
Ecco perciò nelle sue bambocciate, accanto a una miriade di grottesche scene di caccia e di battaglie tra nani e bestiole, di case coloniche e di interni rustici, scene di vita contadina e ciarlatani di piazza, emergere anche opere di ispirazione letteraria. Esse, forse suggerite dalla committenza, hanno come soggetto "I viaggi di Gulliver" o sono maliziose interpretazioni satiriche, sempre con nani, ispirate al "Giorno" del Parini, fresco di stampa, o alle battaglie letterarie, scoppiate proprio in quegli anni, che avevano anche in Bergamo vasta eco dopo la pubblicazione della "Frusta letteraria" del Baretti (21).
È da osservare che, stranamente, l’Albrici nelle bambocciate raramente pone la firma, quasi mai la data. Sono datate soltanto, oltre Il Parnaso del 1765, una piccola tela di collezione bergamasca firmata "Albrici pinxit 1767" e una terza, firmata e datata 1772, che è fra le ultime opere del pittore alla vigilia della morte. Le altre vengono eseguite numerosissime, con ritmo frenetico, ma il pittore ama interrompere "di quando in quando tali opere bernesche di nani" per eseguire ancora dipinti di soggetto sacro. Ciò avviene nel 1765, grazie al fortunato incontro con un vecchio amico, il pittore Pietro Scalvini (22) che, come lui, era stato da giovane allievo di Ferdinando del Cairo a Brescia, e che con lui aveva eseguito l’impegnativa decorazione a fresco della chiesa di Berzo di Valcamonica: per esse aveva lavorato fianco a fianco per lunghi giorni fino all’ottobre del 1745, quando avevano finalmente posto la data conclusiva. A distanza di vent’anni lo Scalvini, nel frattempo divenuto a Brescia pittore ben noto, riceve una commissione a Bergamo per affrescare l’interno della chiesa della Beata Vergine dello Spasimo in borgo S. Leonardo, ed è questa l’occasione per incontrare la famiglia Albrici (23) e per collaborare col vecchio amico, al quale riserva una parte del lavoro: la tazza del coro e le quattro vele.
Altre opere di carattere sacro dipinge l’Albrici in quegli anni: gli affreschi di Chiuduno, oggi perduti, quelli di Albino, di cui si conservano solo dei disegni preparatori e la tela di Alzano Lombardo, che ebbe difficile gestazione ed esito sfortunato. Scrive il Tassi: "a concorrenza di Francesco Cappella, Gio. Raggi, e Federico Ferrari, fece uno de’ quattro quadri della cappella della Beata Vergine del Rosario della parrocchiale d’Alzano, rappresentante il fatto di Jaele e Sisara, il quale a dir vero è una delle sue opere meno pregiabili".
L’artista doveva essere teso e preoccupato: l’opera si svolgeva "a concorrenza" di altri artisti allora ben noti, gli era stato chiesto preventivamente un bozzetto e il contratto, firmato il 21 marzo 1767, fino ad oggi inedito rivela una tale serie di clausole, precisazioni, vincoli e raccomandazioni da parte dei sospettosissimi committenti, che il risultato fu inevitabilmente deludente.
La tela doveva essere eseguita entro "un anno oggi incipiato" per 25 zecchini; gli si prometteva astutamente "un regalo à cognizione e discrezione" se il quadro fosse stato eseguito "à norma del prescrittogli". Ma il "prescrittogli" appunto era una tale serie di legami che, impastoiato fra questi, il pittore finì con l’eseguire una tela inferiore al bozzetto per qualità, proporzioni e prospettiva: il risultato, considerato infelice già dai contemporanei, è sottolineato dal fatto che la tela, poi staccata dalla parete della cappella e sostituita con un’altra, giace oggi quasi dimenticata.
L’8 ottobre 1768 l’Albrici è a Vilminore, dove stipula un contratto per l’esecuzione di tre quadri "per ornamento del coro della Madonna" nella sua parrocchiale. Un mese dopo, l’1 novembre 1768, inizia ad annotare su un foglio i successivi pagamenti, che si svolgono a più riprese fino all’1 novembre 1769. In tale data vengono bruscamente interrotti, senza che si parli di saldo, quando la somma percepita ammonta a £. 925,176 ed è veramente troppo esigua per il pagamento di tre tele.
Le prime due opere furono eseguite: S. Pietro che risana lo storpio è la sola ricordata dal Tassi e fu certo dipinta per prima nel 1768 (24); la seconda esistente, La caduta di Simon Mago, è probabilmente del 1769, ma della terza non c’è traccia. Invece, fra le cinque tele "del coro della Madonna", altre due venivano dipinte in quegli anni dal Cappella, e proprio l’Albrici stesso fu incaricato di versare al pittore in Bergamo gli acconti per ognuna di esse nel 1769 e nell’aprile 1770.
Perché l’Albrici non eseguì la terza tela, per la quale aveva firmato il contratto? Probabilmente perché nel frattempo aveva avuto la commissione di altre due opere, la seconda delle quali, particolarmente lunga e impegnativa, era tale da costringerlo lontano e da impedirgli di raggiungere agevolmente Vilminore. Fra il 1769 e il 1770 era stato chiamato nella parrocchiale di Clusone quale figurista a dipingere otto finte statue di Virtù, assai belle, in nicchie sagomate dovute al pennello di Bernardo Brignoli. Queste Medaglie a chiaroscuro sono ancora ricordate dal Tassi.
Egli non cita invece l’opera forse più significativa dell’Albrici, dipinta l’anno successivo (25): il ciclo degli affreschi della parrocchiale di Capo di Ponte. Essi portano la data 1770 e una firma, la quale rivela l’orgoglio dell’artista che si dice "ENRICUS ALBERICI CIVIS BERGOMI".
Questi affreschi sono come una summa della sua arte: alternano i monocromi cari ai suoi inizi ai colori vivaci e le immagini sacre a particolari curiosi e bizzarri, che lo rivelano pittore di bambocciate.
Dopo due anni, certamente non inattivi, ma dedicati a tele di nani, eccolo firmare una bambocciata, l’ultima delle tre che recano una data: L’assedio della fortezza, già nella collezione Robiati di Milano. Nello stesso anno 1772 dipinge (la notizia è nel volume del Tassi) la volta del coro nella parrocchiale di Zogno il Valle Brembana; nella medesima chiesa sarà chiamato l’anno successivo ad eseguire "quattro quadri laterali dipinti a fresco… rappresentanti le azioni e il martirio di S. Lorenzo", che saranno tra le sue ultime opere.
Seguiamo ancora il testo del Tassi, che aggiunge notizie n parte inesatte: "… restituitosi a Bergamo, attaccato da male di petto a capo di quindeci giorni passò a miglior vita li 20 luglio 1775, in età d’anni 59; e fu sepolto nella parrocchiale di S. Andrea, in faccia alla quale abitava" (26).
L’inedito atto di morte, custodito in questa chiesa, ci rivela l’inesattezza della data. Certo a causa di una polmonite il pittore morì dopo essersi confessato e aver ricevuto il Viatico e l’Estrema Unzione, il 19 luglio 1773 "hora diei octava". Il giorno seguente, 20 luglio, dopo una Messa solenne, il suo corpo fu sepolto "in secundo sepulcro Caponi de licentia D.ni Caesaris Femj" nella chiesa di S. Andrea (27).

NOTE
1) Il suo cognome è stato variamente modificato in Alberici, Albricci, Albrizzi, e il nome in Arrigo. La grafia Enrico Albrici è tuttavia da considerarsi la sola esatta perché è l'unica che ricorre in tutte le firme autografe del pittore. Nelle sue opere (eccetto che a Capo di Ponte, ove la formula latina lo induce a modificare in "Enricus Alberici Civis Bergomi), si firma sempre Enrico Albrici. <
2) Le "Vite de' Pittori, Scultori ed Architetti Bergamaschi" di F. M. Tassi furono pubblicate postume nel 1793, ma l’autore, morto nel 1782, aveva già cessato dal 1777 di dedicarsi alla loro stesura. Le notizie, che gli erano state fornite soprattutto dal conte Giacomo Carrara, vennero sempre più saltuariamente aggiornate fino e non oltre il 1770. Quando, a undici anni dalla morte del Tassi, gli amici suoi pubblicarono il manoscritto, fu ancora il conte Giacomo Carrara che si incaricò di scrivere quelle "Giunte che avrebbe volute distinte in Appendice a ciascuna "Vita", ma che furono invece utilizzate dagli editori per la compilazione delle note a piè di pagina, alquanto arbitrariamente, con tagli e posposizioni (cfr. F. Mazzini 1970, "Saggio biobibliografico" premesso all'edizione critica delle "Vite" del Tassi e Appendice, passim). La "Vita" di Enrico Albrici, l'ultima tra tutte, è esposta tanto minuziosamente, da far pensare a una conoscenza diretta.
È ben noto che il conte Carrara fu colui che, insieme col Ferronati, aveva incoraggiato il pittore a dipingere bambocciate, dandogli anche da copiare quelle dell'Everardi e del Bocchi che si trovavano nella sua galleria. È probabile, quindi, che sia stato lui anche in questo caso il principale informatore del Tassi prima, e poi, nella pubblicazione, fonte degli aggiornamenti e della lunga nota, contente le notizie e le lodi del figlio del pittore, l'abate Giovanni, fisico e matematico, morto nel 1816, che dimostra di conoscere personalmente.<
3) Cfr. Baradello 1906, II, pp. 91-94 che dà numerose notizie sulla famiglia, ricordandone i più importanti discendenti del ramo di Vilminore. Aggiunge inoltre che altri rami della famiglia degli "Albrici nobili veneti" si erano trapiantati ad Onore prima del 1490 e a Clusone, prima del 1696. Sappiamo inoltre che un altro ramo si era stabilito ad Angolo: ad esso apparteneva quel nobile don Giovanni Giuseppe Albrici, zelante e colto prevosto della prepositura degli Umiliati di S. Bartolomeo di Cemmo, per il quale Enrico eseguì varie opere tra il 1761 e il 1762. Lo stemma del casato, che un tempo sormontava a Clusone la tomba di famiglia, è ancora visibile ad Angolo sopra i portali dei due palazzi appartenuti alla famiglia (cfr. A. Bertolini-G. Panazza 1984, II, pp. 85 fig. 111, 94 fig. 129) e ad Onore su una Croce astile datata 1752 conservata nella parrocchiale (cfr. Pagnoni 1979, p. 257). Lo stesso stemma è scolpito a Vilminore sopra il terzo altare di destra nella parrocchiale, appartenente alla cappellania Albrici ed è pure dipinto in una tela conservata nella casa parrocchiale dello stesso paese, raffigurante l'albero genealogico del nobile casato Albrici (tela cm 170X200, restaurata nel 1981.<
4) Ferdinando del Cairo nacque a Casale Monferrato nel 1666. Fu dapprima scolaro del padre Giovan Battista, poi di Marcantonio Franceschini a Bologna. Avendo sposato una bresciana, dal 1701 si stabilì a Brescia, dove morì il 24 ottobre 1743, a 77 anni. Fu assai attivo e collaborò anche coi pittori emiliani, ma delle numerose opere ricordate da fonti bresciane quasi nulla si è salvato: le Sante Caterina da Bologna
e Margherita da Cortona nella chiesa di S. Giuseppe a Brescia e Quattro figure femminili della Pinacoteca Tosio Martinengo della stessa città, che non gli sono date con piena sicurezza. Tutte le fonti bresciane gli assegnano inoltre le rappresentazioni allegoriche di Virtù affrescate all'interno della cupola della chiesa della Carità a Brescia, ove poi sarà attivo anche l'Albrici; ma il Boselli, che pubblica tutti i documenti relativi alle opere di detta chiesa, annotati con estremo scrupolo, afferma: "non vi è traccia nei nostri documenti del nome del Cairo, cui dovrebbesi attribuire la parte figurativa della decorazione" (C. Boselli 1969, p. 96; id. 1974, p. 12). Sul pittore scrive il Passamani (1964, p. 634) che mostra "un più diretto rapporto con le forme del bolognese Franceschini e, attraverso costui, del Cignani, dell'Albani, del Domenichino;...egli è il primo del folto gruppo di emiliani (per nascita o formazione) che in seguito opereranno a Brescia. E tanto a lungo vi soggiornò, che non solo passò talvolta come bresciano, ma fece sentire il suo influsso, cosicché "la più bella grazia e dolcezza" (Maccarinelli) che lo distingue nelle poche opere rimaste, d'impronta bolognese, non si ritrova solamente nell'allievo Scalvini, ma più o meno circola in tutta la pittura locale". Egli poté "incidere sensibilmente sulla cultura locale diffondendo quel gusto per la forma aggraziata e il colorito morbido che si ritrova nel Cappello, nei suoi allievi Scalvini ed Albricci (seppure modificato da esperienze diverse) fino al Dusi e al Fali" (B. Passamani 1981, p. 15). Inesatta è la versione sulla vita e l'educazione pittorica dell'Albrici data dal Fornoni: "… studiò a Bergamo fino a diciott'anni e non so sotto quale maestro. A ventitré anni lo troviamo a Brescia allo studio di Ferdinando del Cairo e tre anni dopo lo vediamo dipingere per proprio conto, studiando i vecchi pittori. Morì a Bergamo il 20 luglio 1775". Probabilmente questa versione deriva da una sommaria lettura del Tassi.<
5) Giovanna, in tutti i censimenti dal 1729 in poi, sarà sempre definita "fatua" o "semifatua". Era nata nel 1712.<
6) Maddalena Albrici, figlia di Cristoforo, fu certo moglie paziente e devota. La troviamo giovane sposa nella casa dei suoceri insieme col marito, nell'anno successivo al matrimonio e quando nasce il primogenito. Si allontana da Vilminore solo tra il '44 e il '45 col marito (quando nasce il secondogenito e la famiglia non è censita in paese accanto ai suoceri: forse col marito era a Brescia o a Berzo di Valcamonica). In tutti i censimenti successivi, Maddalena sarà sempre presente a Vilminore, coi suoceri e con la cognata demente, che terrà presso di sé anche quando i genitori del marito saranno morti. Sarà sempre censita come "uxor Henrici Brixie habitantis", con una definizione che sottolinea la sua solitudine. Enrico faceva tuttavia la spola fra Brescia e Vilminore, come provano la nascita di altri due figli (la prima subito deceduta) e i numerosi contratti per esecuzione di opere per la parrocchiale del paese. Maddalena si riunì al marito solo dopo il trasferimento della famiglia a Bergamo, nel 1763; là morì il 24 febbraio 1782, quasi nove anni dopo il marito. Nell'atto di morte, Maddalena "vidua relicta q.m D. Henrici pariter Alberici" è detta "mulier vere pia, quae asmatis morbum summa patientia tulit". L'età "annorum quinquaginta sex circiter" è errata: aveva invece 67 anni (cfr. Registro Archivio parrocchiale di S. Andrea, Bergamo). <
7) Giacomo morirà a Bergamo il 3 aprile 1777, a 36 anni "morum innocentia et simplicitate vere singulari, post diuturnum morbum patienter toleratum" (cfr. Registro Archivio parrocchiale di S. Andrea Bergamo). <
8) Che la nascita di Giovanni si debba datare al 1744 (o agli ultimi mesi del '43) è provato dal fatto che nel censimento del 1747 è detto di anni tre, e inoltre da una inedita nota inserita nell'ultima pagina del libro "Status animarum 1632 1750" di Vilminore, in cui, in un elenco di nomi di bambini sotto la data 1744, c’è "Giovan Ma:f. di Enrico Albrizi / Giovan f. mesi sei". Non figura invece nel libro dei battesimi di Vilminore, dove sono registrati i nomi dei suoi fratelli (oltre a quello di un omonimo). È possibile che Giovanni sia nato pertanto a Brescia o a Berzo di Valcamonica, dove lavorava il padre.<
9) Non è attendibile la datazione degli affreschi di Berzo proposta da A. Sina (s.d.) secondo il quale l'opera dell'Albrici a Berzo fu eseguita fra il 1740 e il 1743 e sarebbe stata completata successivamente da quella dello Scalvini da solo nel 1745. Il Sina ricorda che si pensò di decorare la chiesa nella parte ancora spoglia intorno al 1739, dietro proposta dell'arciprete A. Bosio che la scelta cadde su Giovanni (sic) Albrici da Vilminore "che da quel tempo esercitava la sua arte in Brescia i cui lavori riscuotevano l'applauso di molti" (la notizia è errata: l'artista rimase a Vilminore dal 1733 fino al 1744; il 1740 è l'anno in cui, secondo il Tassi "dato bando al divertimento" si rimise a studiare, per sposarsi l'anno successivo; il 1744 (4 dicembre) è l'anno in cui firmò a Brescia quella prima ricevuta alla chiesa della Carità che anticipa di un anno la partenza da Vilminore, che il Tassi datava al 1745). Il Sina invece afferma che si cominciò ad affrescare la chiesa nel 1740 e desume la notizia da un verbale della vicinia del 24 aprile 1740 in cui si legge che i RR Presidenti della chiesa, avendo deciso di ornare la stessa con pitture, avevano chiesto e ottenuto dalla comunità "la elemosina del legname per li ponti". Il Sina prosegue asserendo che al pittore fu proposto di "narrare col pennello tutto ciò che abbia riferimento sia nell'Antico Testamento che nel Nuovo alla Vergine Santissima" e che "l'Albrici annuì e messosi al lavoro svolse il vasto tema". Secondo il Sina sono dell'Albrici tutte le quadrature e praticamente quasi tutti i dipinti della chiesa, elencati minuziosamente, compresa L'arca di Noè. Aggiunge quindi il Sina: "Sembra che l'Albrici terminasse il suo lavoro mentre era vivente il Rev. Bosio, spentosi nel 1743. Il Rev. Pietro Bava di Breno che gli successe ne continuò l'opera, affidandola nel 1745 a Pietro Scalvini, discepolo, al pari dell'Albrici di Ferdinando del Cairo". Secondo il Sina le sole opere dello Scalvini sono L’Assunzione nel presbiterio e le due Virtù della Fede e della Speranza nelle pareti laterali da lui ritenute sproporzionate. Come già detto, sia per motivi cronologici che per dati stilistici, queste notizie sono per la maggior parte inesatte. Anche se i fondi per i ponteggi si andavano raccogliendo nel 1740, l’esecuzione di tutta l'opera è senz'altro posteriore a tale anno: fu probabilmente eseguita non in successione, ma in collaborazione da entrambi i pittori, che la datavano alla fine, sotto un'arcata, "Ottobre 1745". <
10) Michele Angelo, trasferitosi come tutta la famiglia a Bergamo nel 1763, là sposava il 21 aprile 1775 Taddea Zucchi, appartenente alla sua stessa parrocchia di S. Andrea (cfr. i registri parrocchiali). Il 13 maggio 1777 gli nasceva un figlio che fu battezzato col nome di Giovanni Enrico, che ricordava lo zio abate e il nonno pittore. Il piccino moriva, a soli cinque mesi, il 18 ottobre dello stesso anno. Michele Angelo era ancora vivo nel 1816 quando si preoccupava di fare pervenire al Reggente del Liceo di Bergamo l'annuncio della morte di suo fratello, l'abate Giovanni che in quella scuola era stato addetto al Gabinetto di Fisica. Nei registri parrocchiali di Bergamo e di Vilminore non c'è invece nessuna traccia di quel presunto ultimo figlio dell'Albrici "Guglielmo prete e scombicchieratore di quadri più che pittore" ricordato solo dal Fornoni che dice di lui: "Rovinò molti dipinti col pretesto di restaurarli". Questa notizia, che non ha altrove conferma, pare priva di fondamento. <
11) Giorgio Duranti (1683 - 1775) abate, cavaliere di nobile famiglia e pittore "dopo un breve periodo fiorista continuò fino alla morte un'unica rassegna di anitre, galline, tacchini, per lo più immobili, ritti o accucciati in un’oziosa quanto stupida vita... Il gusto raffinato degli accordi cromatici e la curiosità del tema resero apprezzata la sua produzione dal Veneto alla Lombardia" (B. Passamani 1964, p. 662). Secondo la Calabi (1935, p. 33) ebbe "genuine e personali qualità pittoriche" ed i suoi volatili sono "attentamente osservati e rappresentati". Anche l'Albrici dipinse spesso volatili, più tardi, nelle sue bambocciate. <
12) Su Angelo Everardi, in "Saggi e Memorie di Storia dell'Arte" della Fondazione Cini, n. 4, Venezia. Faustino Bocchi, il pittore che ideò le bambocciate di nani, visse tutta la vita a Brescia (1659-1741). Sulle bambocciate e la loro origine, sulla vita e l'opera di Faustino Bocchi cfr. in particolare M.A. Baroncelli 1965, pp. 9-64, 105-114. <
13) M.A. Baroncelli 1965, p. 36. <
14) Cfr. ms. Queriniano, K V 4; ms. 1 pubblicato da M.A. Baroncelli 1965, p. 104. <
15) Si firmava "Nobile Reverendo" perfino sulla campana di S. Maria di Malegno (cfr. A. Bertolini-G. Panazza 1980, I, p. 135). La campana, collocata nel 1798, dal prevosto di Cemmo pagata L. 630, reca la seguente scritta "A. 420 CONDITA A P.P. / HUMILIATIS HUIUS PRAEPOSITI / ECCLESIAE / FONDAT. / RENOVATA A.D. 1792 / A. NOB. REV. D. IOSEPHO PRAEP / ALBRICCI...". Si vedano comunque su di lui Opere disperse.<
16) Lo stemma del ramo degli Albrici di Angolo era lo stesso di quelli di Vilminore (un castello con due torri sormontate da un leone inleopardito e da una ruota; cfr. nota 3).<
17) Sulla nascita di Giovanni avvenuta tra il 1743 e il 1744 fuori Vilminore, cfr. la nota 8. Una delle "Vite" del Tassi, redatta quasi certamente dal Carrara, e che dimostra una diretta conoscenza della persona e degli avvenimenti, ci informa su di lui: unico fra i tre fratelli "attese alcun poco al disegno, e ricopiò alcune opere del padre, ed altre da lui lasciate imperfette ha condotte a fine: e mercé la diligenza in esse usate possono essere applaudite. Ciò però che lo ha distinto è il suo genio particolare nelle cose fisiche, e matematiche, nelle quali si può dire che senza scorta alcuna, ma con la sola sua industria, ha fatto grandi progressi". Il Carrara si diffonde a elencare una serie di congegni da lui inventati per il gabinetto di fisica sperimentale delle pubbliche scuole di Bergamo, che gli fu affidato fin quasi alla morte, avvenuta il 12 aprile 1816. Un piccolo planetario fu da lui costruito anche per uso dei figli di S.A.R. l'arciduca Ferdinando, e riscosse l'approvazione dei regi astronomi della Specola di Brera che l'avevano preventivamente esaminato e controllato. Ne eseguì anche uno più grande, oggi conservato nella biblioteca del liceo "Paolo Sarpi" in Bergamo; nel 1775 costruì, per conto dell'Accademia Economico-Arvale della città, un aratro-seminatore come quelli in uso allora in Francia, Inghilterra e Toscana (cfr. "Atti dell'Accademia", vol. 68r, 9 marzo 1795, ms. VII, 7 ora 5/142, Biblioteca Civica, Bergamo). La sua opera più nota è tuttavia la meridiana, collocata nel 1798 nel portico sottostante al Palazzo Vecchio, che fu la prima d'uso pubblico esistente a Bergamo. L'anno successivo 1799 "ad alcuni dell'ignorante volgo parve scorgere in essa un simbolo della rivoluzione" e si tentò di distruggerla. Giovanni Albrici pertanto procedette a una verifica nel 1806, ma essa risultò "affatto precisa" perché "la solidità della costruzione erasi mostrata superiore alla vandalica forza dell'ignoranza" (cfr. "Notizie Patrie" 1859, pp. 80-87). Se della sua attività scientifica c'è larga testimonianza, di quella artistica ben poco è invece rimasto, anche perché pare che egli non abbia apposto firme. Secondo Elia Fornoni si devono a lui opere che dimostrano un legame con l'avita Val di Scalve (Fornoni, "Dizionario Odeporico" ca. 1920, XVI, p. 92 e XIX, p. 652). Suo è, nella parrocchiale di Vilminore, il Capocielo assai fastoso, che ben si intona alla grandiosità della chiesa. Esso racchiude, tra fiocchi e volute, cesti di fiori e frutta e finte cornici, l'unica tela certa dei pittore: un Padre Eterno benedicente circondato da teste d'angioletti, dipinto con cromatismo vivace e buona prospettiva, ma inadeguato a chiarire la personalità dell'artista. Giovanni Albrici è autore anche dei disegni di due opere per la chiesa di Schilpario: un bell’ostensorio giudicato dal Fornoni "degno di una cattedrale", che andò perduto in un incendio nel 1937, e la macchina del Triduo, che invece esiste tuttora. L'imponente costruzione lignea, che rivela grandiosità di concezione, fu ideata dall'artista quando era ancor vivo il padre e realizzata nel 1770 da Pietro Pizio di Schilpario: essa conferma il gusto per le opere fastose e decorative. L'abate Giovanni Albrici, colpito da sincope, morì improvvisamente la sera della domenica 10 novembre 1816, mentre, nella chiesa di S. Michele al Pozzo Bianco, assisteva ai Vespri. Aveva settantatré anni. Le notizie relative alla morte si ricavano da una lettera scritta da un conoscente a nome del fratello e indirizzata al Reggente del R. Liceo di Bergamo presso il quale egli era stato addetto al Gabinetto di Fisica; risultano pure dall'atto di morte conservato nei registri della parrocchiale di S. Andrea, presso la quale aveva abitato tutta la famiglia. Egli fu sepolto il 12 novembre, fra l'universale compianto di chi aveva apprezzato le sue doti di artista, di studioso, di sacerdote e di uomo.<
18) Cfr. nota 2.<
19) La notizia dell'esistenza di bambocciate dell'Everardi nella galleria del conte Giacomo Carrara è assai importante, perché è l’unica testimonianza che prova che quell'artista, maestro di Faustino Bocchi, abbia dipinto opere di quel genere pittorico e ne sia stato l'iniziatore (cfr. M.A. Baroncelli 1965 p 17).<
20) Aveva una sorella sempre def1nita nei censimenti di Vilminore "fatua" o "semifatua" (v. nota 5).<
21) L'argomento era di vivissima attualità: la "Frusta letteraria" del Baretti, uscita il 1° ottobre 1763, veniva soppressa nel 1764 dopo 25 numeri per il fastidio e lo scandalo che aveva sollevato; il critico fece uscire altri otto numeri ad Ancona proprio nel 1765, prima di sospendere definitivamente la pubblicazione. Il "Bue pedagogo" dell'abate Buonafede di Comacchio fu pubblicato a Bologna nel 1764. Il "Mattino" del Parini era stato pubblicato nel 1763, il "Mezzogiorno" nel 765.<
22) Pietro Scalvini (Brescia 1718-1792) "tra i decoratori bresciani è certamente il più dotato di gusto e fantasia... La sua prima formazione avviene con Ferdinando del Cairo, cui si deve quella versione della bellezza fragile e un poco manierata per la quale i volti e i corpi delle sue figure hanno il profumo d'una delicata giovinezza muliebre e le espressioni sono addolcite da teneri sottintesi. Tale impronta è controllabile lungo tutto il laborioso corso della sua pittura... fino alle varie decorazioni per i palazzi dell'ultimo periodo. Essa rimane malgrado le sovrapposizioni di Carloni, Pittoni, Tiepolo dalle quali gli vengono, specie verso la fine, l'arditezza degli scorci e delle messe in scena" (Passamani 1964 pp. 654, 655). Secondo P.V. Begni Redona "della formazione alla scuola di Cairo non sembra esserci nelle opere giovanili molta evidenza riscontrabile… Non sembra... che lo Scalvini abbia avuto molto da soffrire a causa dell'ambiente poco stimolante del maestro, che imparò da sé e ben presto, a guardare con occhio avido e attento quello che avveniva nel vasto panorama della cultura pittorica... La sua sterminata produzione (che fortunatamente fornisce in abbondanza firme e date) non ha una ben definita linea evolutiva... i pochi studiosi che di lui si sono interessati fino ad ora, hanno tentato di fare un inventario delle sue fonti e di catalogare i molti imprestiti derivatigli dal Ricci, dal Pittoni, dal Carloni, dal Quaglio, dal Tiepolo senza disdegnare nemmeno il Fontebasso ed il Longhi... Allo scoccare degli anni Cinquanta lo Scalvini ottiene anche le commissioni di imprese a fresco di grande respiro e per più di un trentennio non conoscerà rivali, in ambito locale almeno per foga ed estro decorativo (cfr. AA.VV. 1981, pp. 74-75).<
23) Nel 1745, quando il pittore lavorava a Berzo con lo Scalvini, era assente da Vilminore anche la moglie col primogenito e il piccolo Giovanni, che nacque probabilmente a Brescia o proprio a Berzo (cfr. note 6 e 8); non è improbabile pertanto che lo Scalvini conoscesse Maddalena Albrici.<  
24) Questa data 1768 è ovviamente perciò anche quella in cui il Tassi ricevette le notizie che poi si pubblicarono: il quadro è ricordato come eseguito "ultimamente" (Questa parola è riferita tuttavia anche alla Trasfigurazione, che noi sappiamo dipinta a Bergamo nel 1763). Certo è che il Tassi avrebbe citato anche la seconda tela, La caduta di Simon Mago, se fosse stata già eseguita, visto che ricorda minuziosamente il soggetto di tutti gli altri quadri dell'Albrici nella parrocchiale di Vilminore.< 
25) Ben sappiamo (v. nota 2) che il Tassi in quegli anni si dedica va saltuariamente alla stesura delle "Vite", interrotta nei suoi aggiornamenti proprio negli anni 1768 - 1770 (cfr. F. Mazzini 1970). Ne è una prova la frammentarietà delle notizie relative a questi anni. Il testo del Tassi ricorda a Vilminore S. Pietro risana lo storpio (1768) e non La caduta di Simon Mago (1769, cfr. nota 24); ricorda le Medaglie di Clusone (1769-70) e non l'impegnativa decorazione della chiesa di Capo di Ponte datata 1770. Questo vuoto si colma più tardi, quando invece il testo del Tassi viene aggiornato sugli affreschi di Zogno (1772-73) di cui si parla perché sono legati alla morte del pittore, avvenuta quindici giorni dopo che furono terminati.<
26) La documentazione del libro del Tassi è di nuovo esauriente e meticolosa riguardo al giorno della morte, o meglio dei funerali, e circa la sepoltura e l'abitazione del pittore. L'errore sull'anno di morte, 1775 anziché 1773, è probabilmente dovuto alla stampa, perché il defunto pittore è detto con esattezza di anni 59, età che aveva appunto nel 1773 (e non nel 1775) essendo nato nel 1714. Le notizie sul figlio del pittore, Giovanni, che chiudono non solo la "Vita" dell'Albrici ma anche il libro del Tassi, sono in nota a pie' pagina, e sono dunque del Carrara.<  
27) La casa di fronte alla chiesa di S. Andrea doveva essere di proprietà della famiglia, se nel 1816 il sacerdote Giovanni Albrici, figlio del pittore, apparteneva ancora a quella parrocchia, nella quale venivano officiati i suoi funerali. Nei registri parrocchiali di S. Andrea si possono seguire le vicende della famiglia successive alla morte del pittore (v. note 6, 7, 10, 17).<  

BIBLIOGRAFIA 
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1988 Catalogo Asta Finarte, n. 652, 14 giugno, lotto 64, Milano. 

(Maria Adelaide Baroncelli, I pittori bergamaschi, vol. Il Settecento III, pp. 107-117)

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