GIAN PAOLO CAVAGNA
La vita
di Luisa Bandera
Le fonti antiche non ci hanno tramandato alcuna notizia
biografica di Gian Paolo Cavagna. Il Tassi, che per primo si accinse a
scriverne la "Vita" preciso che dovette "penar molto a rivenirne quelle
poche" che pubblicò. La stessa data nascita - 1556 - non è
ricavata da un documento d'archivio, ma da una scritta, ora scomparsa,
posta sulla tela rappresentate la Madonna tra S. Rocco, S. Sebastiano e
quattro confratelli dell'oratorio della Dottrina Cristiana della chiesa
di S. Rocco a Bergamo, in cui oltre la firma e la data di esecuzione, 1591,
si poteva leggere "35 aetatis suae".
Gian Paolo Cavagna abitò a Bergamo in vicolo Zambonate,
E sulla facciata della lingua casa conserva ancora al tempo del Tassi tracce
di un affresco in cui il pittore aveva inserito in modo singolare e illusionistico
il proprio autoritratto, raffigurandosi come un giovane che si sporgeva
da una finta apertura, presumibilmente una finestra, tenendo "in una mano
... la tavolozza de' colori, e nell'altra i pennelli" (Tassi, I, p. 208).
dalla prima moglie, Margherita Santina, ebbe quattro figli, di cui due,
Caterina e Francesco, divennero pittori assenza però raggiungere
i risultati che qualificarono il padre.
Gian Paolo compì il suo apprendistato nella bottega
di Cristoforo Baschenis: la notizia fu riferita dal Pasta (1775) che affermò
di aver visto il contratto stipulato tra l'artista e il padre del giovane
pittore nell'archivio delle Cappuccine. Questa segnalazione troverebbe
conferma in alcuni documenti del 1582 riguardanti alcune opere decorative
eseguite nel cappella del Corpus Domini della chiesa di San Alessandro
in Colonna di Bergamo da Gian Paolo Cavagna e da Cristoforo Baschenis il
Giovane, che aveva appreso l'arte nella bottega dello zio, con ogni probabilità
insieme al giovane Cavagna.
Al contrario il soggiorno a Venezia, e addirittura un
alunnato nella "stanza" del Tiziano ricordati dal Tassi non trovano alcuna
conferma. La esposizione fatta forse per intenti encomiastici poté
essere stata suggerita dal fatto che sino alla fine dell'ottavo decennio
del secolo non si hanno indicazioni riguardanti l'attività del pittore
e ciò avrebbe portato a credere che si fosse trasferito nella capitale
veneta.
La notorietà di Gian Paolo dovette affermarsi
lentamente, se ancora nel 1588, pur di poter far parte dei pittori operanti
per la basilica di S. Maria Maggiore, accettò di dipingere la pala
di S. Giovanni Evangelista alla condizione che se l’opera non fosse piaciuta
ai committenti, gli sarebbe stata respinta senza il rimborso delle spese.
Se si escludono alcune decorazioni per il palazzo del
Podestà, questa pala fu il primo incarico importante che lo segnalò
come artista di primo piano nel contesto della pittura bergamasca, in un
periodo cui mancavano personalità di rilievo a contrastare la sua
affermazione. Da questo momento l’attività del pittore ebbe un ritmo
intenso, divisa tra la città e il contado, fra commissioni di carattere
religioso e laico. I patrizi e gli esponenti delle classi sociali più
elevate, volendo accrescere il loro prestigio, e desiderosi di confrontarsi,
nel clima aristocratico del tardo manierismo, con quanto si faceva nella
vicina Milano e nella capitale veneta, affidarono al pittore la decorazione
dei loro palazzi, imprese che le trasformazioni posteriori hanno cancellato
quasi per intero.
Le volte dei saloni e le gallerie dei palazzi patrizi
furono dipinte con scene mitologiche, con composizioni ispirate alla storia
romana e ai fatti dell’Antico Testamento, i cui "difficilissimi scorci"
e le "graziosissime figure, bellissimi paesi, vaghe architetture, ingegnosi
grotteschi" non mancarono di accattivarsi le lodi del Tassi, che poté
affermare che "nessuno ornò mai le sue opere con maggiore varietà
di cose, spargendo per entro di esse con grande proprietà, e intendimento,
paesi, animali, frutti, maschere, rabeschi, cartocci, fogliami, e quant’altro
può mai idearsi umano ingegno".
D’altra parte l’impulso dato dal Concilio tridentino
portò al moltiplicarsi delle committenze di dipinti sacri in un
fervore di attività che impegno gli ordini religiosi, le parrocchie,
le confraternite e che vide il Cavagna operare da protagonista nella vasta
diocesi bergamasca dal nono decennio del Cinquecento fino al 1627. Dopo
la pala dipinta nel 1588 per la basilica di S. Maria Maggiore, la confraternita
di S. Rocco e quella della Misericordia gli affidarono una serie di dipinti
che sanzionarono definitivamente la sua affermazione. Nel 1595 Gian Paolo
fu chiamato dai Padri Agostiniani di Cremona per decorare la loro Libreria.
Dalle lettere che gli scrisse durante il soggiorno cremonese al padre del
suo collaboratore, Giovanni Battista Grifoni, risulta che egli strinse
amicizia con i pittori che hanno qualche affinità con lui: Gervasio
Gatti e G. B. Trotti, che espressero il loro apprezzamento per quanto stava
eseguendo.
La famigliarità con pittore trevigliese Giovanni
Battista Grifoni può essere stata il tramite per procurare al Cavagna
l’importante commissione per la chiesa di S. Martino a Treviglio eseguita
con l’aiuto del figlio Francesco, che secondo il Tassi aveva cominciato
a collaborare col padre dal tempo degli affreschi cremonesi. Da una lettera
riportata dal Tassi nella biografia del pittore apprendiamo che egli si
trovava nella cittadina nel 1597, data a cui si può far risalire
la decorazione del soffitto "con finti sfondi a chiaro scuro fingendo archi
rialzati a sesto di ottima architettura", come annota Giacomo Carrara in
un manoscritto che avrebbe dovuto servire per la storia della pittura bergamasca
"… sotto i quali cadono le finestre laterali a ciascheduna delle quali
finestre sono due Profeti […] dipinti a colori naturali tutti diversi d’atteggiamenti
in numero di 24 poiché le arcate sono sei per parte […]. Ai lati
di dette arcate risale l’architettura in figura di mensola espressa […]
da due Cariatidi cioè una parte per le quali portano la cornice,
sopra nella quale nel mezzo che vale a dire sopra le finestre quadre, […]
evvi finto un tondo tenuto da due putti uno per parte, […] e in detti tondi
sono espresse a colori naturali varie storie e tutto ciò nella grande
navata di mezzo. Sul muro delle navate laterali corrispondenti alle arcate
erano dipinti in nicchie vari Santi e Sante…" (Archivio Accademia Carrara,
Bergamo). Purtroppo tutta la chiesa, ad eccezione dei medaglioni centrali,
fu ridipinta nel 1775 dai fratelli Galliari, e l’attività dei due
Cavagna è ora solo documentata dalle tele del presbiterio e da quella
nella cappella di S. Caterina eseguita tra il 1602 e il 1605.
Nello stesso periodo Gian Paolo dipinse a Piacenza il
Martirio di S. Sisto e S. Lorenzo, per la chiesa dedicata a S. Sisto, precedentemente
affidato a Camillo Procaccini. Non abbiamo invece alcun riferimento d’archivio
per datare il soggiorno del Cavagna a Brescia per gli affreschi di S. Maria
del Lino. È certo che a Bergamo, con l’inoltrarsi del nuovo secolo,
l’artista dovette competere con un altro pittore locale, Enea Salmeggia
che, ormai affermato in città e già sostenuto dalla fama
che si era acquistata a Milano, dovette apparirgli un concorrente non facilmente
superabile.
Tale rivalità trova eco nelle lunghe trattative
svolte nel 1615 dai Reggenti della basilica di S. Maria Maggiore per la
decorazione della cupola. Per superare l’ostacolo era stata presa una decisione
salomonica, e certo inusitata: il riquadro centrale con l’Incoronazione
della Vergine sarebbe stato dipinto dai due pittori, e poi si sarebbe estratto
a sorte la parte toccata a ciascuno. La decisione non dovette essere gradita
al Salmeggia, che scrivendo al ministro per rifiutare l’incarico così
concludeva: "et così che [sic] più di me desidera tal opera
haverà il campo libero" (Biblioteca Civica di Bergamo, Archivio
MIA).
Qualche anno più tardi i due pittori, insieme
a Francesco Zucco, sono ancora in gara, per l’allogazione della pala col
Martirio di S. Alessandro da mettersi al centro del coro della chiesa di
S. Alessandro in Colonna. Per concorrere ciascuno dovette eseguire un dipinto
per la cappella di S. Grata; sulla base di queste opere fu deciso che l’esecuzione
della tela del presbiterio fosse affidata al Talpino.
Nonostante queste difficoltà e contrarietà
il Cavagna, anche a detta del Tassi, "continuò indefessamente a
lavorare" e la sua produzione è stata assai vasta.
In una supplica ai Reggenti della basilica di S. Maria
Maggiore a proposito dei lavori della cupola, il pittore scriveva di aver
lavorato "a rischio della salute, poiché sopra preso più
volte da febre, [l’]ho trascurata per servirli".
Da questo referto viene confermato che solamente le sue
opere, con le date segnate accanto alla firma o indicate nei documenti
di allogazione, costituiscono la storia della sua vita di pittore e di
uomo, se si prescinde dai due matrimoni, l’uno ricordato dal Tassi, l’altro
documentato in una carta dell’archivio di S. Alessandro della Croce, avvenuto
il 24 novembre 1611, "non essendosi fatte alcune pubblicazioni". Altre
notizie non ci sono.
Gian Paolo Cavagna fece testamento il 17 maggio 1627
(Fornoni) e morì a Bergamo il 20 dello stesso mese, come indica
l’atto di morte esistente presso l’archivio parrocchiale di S. Alessandro
in Colonna. Fu sepolto in S. Maria delle Grazie.
LA CRITICA
"Se non è meraviglia che gli scrittori nostri
abbiano i nomi di que’ pittori taciuto, de’ quali poche opere, o niune
sono rimaste, è strano certamente che non abbiano fatto menzione
alcuna di Gio. Paolo Cavagna" scriveva il Tassi alla fine del Settecento,
iniziando la biografia del pittore, stupito dalla trascuratezza degli storici
verso un artista che aveva lasciato una copiosissima testimonianza della
sua attività, svolta non solo a Bergamo, ma anche nelle città
vicine, come Cremona e Brescia.
Infatti i dipinti del Cavagna non trovano alcun riscontro
nella letteratura artistica del Seicento e neppure nel Ridolfi, che pure
dimostrò di avere particolari attenzioni verso per gli artisti vicini
al suo tempo. Fanno eccezione alcune guide locali che tramandano scarse
memorie delle opere eseguite dal pittore: sono i bresciano Faino e Paglia,
che ricordano l’affresco eseguito in S. Maria del Lino, Emanuele Lodi,
che rammenta l’attività svolta a Treviglio, e il bergamasco Donato
Calvi, che ci lascia un primo, esiguo elenco di tele viste nelle chiese
della sua città e delle diocesi. A questi brevi cenni si deve aggiungere
un’altra testimonianza lasciataci da fra’ Timoteo da Mantova relativamente
agli affreschi della Biblioteca degli Agostiniani di Cremona, distrutta
tra il 1815 e il 17. La grandiosa architettura, a tre navate, iniziata
nel 1589 dal priore Benigno degli Abiati, sorgeva presso la chiesa gotica
di S. Agostino, e ospitava, come riferisce il manoscritto che si conserva
presso la Biblioteca Civica cremonese, l’Accademia Biblica di Scienze Teologiche.
L’intero ciclo decorativo, eseguito nel 1595 dal Cavagna con l’aiuto di
Gian Battista Grifoni insieme a Orazio Lamberti e a fra’ Sollecito da Lodi,
doveva illustrare le finalità dottrinali e teologiche dell’Accademia,
a cui avevano dato la loro adesione personaggi come il vescovo Speciano,
che in sincronia con gli orientamenti controriformistici, erano attenti
a stroncare il sorgere di tendenze eretiche, che a Cremona avevano dato
segni preoccupanti anche nell’ambito degli stessi ordini religiosi. I quadri
affrescati nei soffitti delle tre navate rappresentavano temi alludenti
alle discipline letterarie e filosofiche e all’Antico e Nuovo Testamento,
ed erano collegati fra loro da trofei, emblemi e scritte che illustravano
il significato allegorico delle varie scene, in un complesso che forse
si riallacciava ai motivi introdotti a Mantova da Giulio Romano e adottati
dai Campi.
Ma per tornare alla fortuna critica del Cavagna, sappiamo
che la trascuratezza dimostrata dai letterati e dagli storici seicenteschi
fu in parte compensata dalla grande considerazione e ammirazione che gli
dimostrò Ciro Ferri, il quale, dipingendo in S. Maria Maggiore negli
anni 1665 – 67, pare, per dirla col Tassi, che "desse frequentemente d’occhio"
alle opere del pittore.
Nel secolo successivo, tuttavia, le opere del Cavagna
richiamarono l’attenzione dei collezionisti, che a Bergamo vantavano una
tradizione di grande rilievo. L’abate Giovanni Battista Angelini, già
nel 1720, segnalava alcune opere del pittore in collezioni che si pregiavano
di dipinti attribuiti ai più noti artisti italiani come quelle di
Francesco Vassellini de’ Muzi, vicario episcopale, del francescano Tomini,
dei conti Medolago Albani di Urgnano e Secco Suardi. Lo stesso conte Carrara
non mancò di arricchire la sua raccolta con opere di Gian Paolo,
acquistando nel 1765 le tavole provenienti dalla chiesa dello Spasimo,
e nel 1780, la bellissima Madonna del cinto, sottraendola così alla
sicura dispersione conseguente alla demolizione della chiesa degli Agostiniani
di Romano Lombardo. Un S. Francesco firmato, come hanno accertato le ricerche
di Laura Mattioli Rossi (tesi di laurea, Milano, 1975) figurava nel 1795
nella raccolta di Ca’ Remier a Venezia.
Il rinverdirsi della fama del Cavagna nell’ambito del
collezionismo privato si può arguire anche dalla stima dei suoi
quadri elencati in un inventario steso il 7 agosto 1797 dei dipinti che
si vendevano nella bottega di proprietà di un certo Antonio Bellotti
di Crema. Da questo documento, che si conserva nella Biblioteca Civica
di Bergamo, segnalatomi dalla cortesia di Mons. Luigi Chiodi, si apprende
che un Crocifisso del pittore era stato valutato £ 22, mentre un
ritratto del Moroni £ 20 e un Miracolo di S. Domenico attribuito
a Paolo Veronese £ 15. Nondimeno si dovrà arrivare all’ultimo
quarto del Settecento perché l’opera di Gian Paolo sia oggetto,
almeno a livello locale, di una prima, anche se parziale, valutazione critica.
Iniziò con Francesco Bartoli, che nelle "Pitture,
Sculture e Architetture delle chiese e dei luoghi pubblici di Bergamo"
(1774) stese un inventario esatto e abbastanza nutrito delle opere, e continuò
col Pasta, il quale guidato dagli ideali illuministici alla riscoperta
della tradizione artistica della sua città, nelle "pitture notabili
di Bergamo" (1775) ampliò l’elenco lasciato dagli storici precedenti
e corredò le citazioni con giudizi che non sono soltanto genericamente
elogiativi. Si sforzò infatti di indagare criticamente l’attività
del pittore, cercando di definire le componenti della sua formazione artistica,
che vide diramata oltre la cerchia locale. Insieme al Moroni e a Cristoforo
Baschenis di Averara, che, secondo un documento da lui ricordato, risulta
essere stato il suo primo maestro, il Pasta rilevò influenze veneziane,
sino a definire il Cavagna "emulo" di Paolo Veronese. Fu il primo che cercò
anche di evidenziare le caratteristiche più significative della
produzione dei due protagonisti della pittura bergamasca del tardo Cinquecento,
che ebbero in comune un intento normalizzante, e già, se non antimanieristico,
certamente "dopomanieristico": il Cavagna e il Talpino. Mentre nelle opere
di quest’ultimo, lo scrittore sottolineava "i graziosi atteggiamenti" e
"la soavità del colorito", nel primo ammirava "la forza delle tinte"
e "la energia delle espressioni", sottolineando così una indipendenza,
almeno in termini generali, dagli orientamenti classicheggianti del Salmeggia.
Facendo seguito al Pasta, in un’impresa di diversa concezione,
nelle "Vite dei pittori bergamaschi" (1793) Francesco Maria Tassi raccolse
le notizie, per la verità piuttosto esigue, per la biografia del
pittore, cercando di documentarne la vasta produzione.
"Sentendo[si] così… sopraffatto da una falange
di opere innumerevoli… da sì ferace pennello sparse e disseminate"
prese tuttavia in esame quelle "di eterna memoria più meritevoli",
limitandosi per le altre a ricordare le chiese e i paesi nei quali era
possibile rintracciarle.
Sebbene poi affermasse che il Cavagna "usò scrivere
il proprio nome e il millesimo in quasi tutte le sue opere a olio", il
Tassi non segui nell’elenco un ordine cronologico. Il motivo deve essere
ricercato, a nostro avviso, oltre che nella scarsa filologia dello storico
settecentesco, anche nel fatto che in realtà poche sono le tele
datate, mentre moltissime sono quelle firmate. Va anche notato che nella
fase della maturità si notano nell’artista pochi mutamenti e sviluppi,
cosicché il biografo deve aver avvertito la difficoltà di
seriare le opere.
Ignorando l’alunnato presso Cristoforo Baschenis ricordato
dal Pasta, il Tassi riferì che il Cavagna "portossi ancora giovinetto
in Venezia e volle buona sorte che fosse introdotto nella fiorentissima
stanza di Tiziano". La notizia non trova conferma in nessuna altra attestazione
scritta, né tantomeno nelle opere giovanili del pittore, il cui
venezianismo sembra piuttosto orientato verso il Tintoretto e il Veronese,
e filtrato dagli artisti tardo - manieristici dell’entroterra, come il
Maganza. Né mancano inflessioni derivate dai modi dei pittori bresciani
e cremonesi, la cui carica espressiva, di stampo nordicizzante, rappresentava
una diversificazione dal classicismo cromatico di origine veneta. Per esemplificare,
si può ricordare l’Incoronazione della Vergine con i Santi, Giovanni
Battista, Francesco, Maddalena e Giovanni Evangelista della chiesa parrocchiale
di Casnigo del 1580, la prima opera datata che si conservi, in cui il Cavagna
rielabora insieme ad ascendenze venete uno schema morettiano e interpreta
con intelligente filtratura il luminismo del Savoldo, ottenendo risultati
che sono da porsi in parallelo a quelli ricercati da Vincenzo Campi. Solo
verso la fine del Cinquecento si evidenziano in lui, in misura maggiore,
le attenzioni per la pittura veneziana, con particolari interessi per il
manierismo che era stato elaborato nella città lagunare.
Non dovette essere estranea a queste convergenze la presenza
a Milano, già dal quinto decennio del secolo, di opere di artisti
rappresentanti gli atteggiamenti più eterodossi e innovatori dell’area
settentrionale: Francesco Salviati e Giovanni De Mio. Forse da quest’ultimo,
più ancora che dai cremonesi, il Cavagna derivò l’attenzione
per i romanisti nordici, che si manifesta sia nella ricerca di effetti
plasticamente illusivi, sia nel modo di costruire i paesaggi con quinte
di rocce e di alberi frondosi, toccati da brevi tratti di luce. Un interesse
spiccato per la pittura dei Bassano, in particolare di Francesco e di Leandro,
portò Gian Paolo a darne un’interpretazione che naturalizzava gli
effetti di luce, così che sembra anticipare certi veronesi come
il Bassetti.
D’altra parte il crescente prestigio della pittura veneziana
aveva lasciato tracce anche a Bergamo, e il biografo non mancò di
ricordare che nel 1592 il Cavagna fu chiamato a restaurare quattro grandi
ovati appena inviati da Francesco Bassano per la basilica di Santa Maria
Maggiore, ciò che sembrava altresì attestare che egli fu
ritenuto il più consentaneo alla maniera del pittore veneto. Il
Tassi poi, non trovando elementi per sostenere la notizia dell’alunnato
presso Tiziano, si affrettò ad aggiungere che il pittore "dopo essere
stato alcun tempo presso di lui, partitosene… volle restituirsi alla patria,
ove giunto, ed appreso da Gian Battista Moroni l’impasto dei colori, da
sé poi si formò una maniera di dipingere, che fu sua propria".
In questa personale maniera non mancò di avvertire, come il Pasta,
influenze veronesiane. Inoltre lo studioso sottolineò, sia pure
limitandosi alle notizie senza trarre considerazioni stilistiche, i rapporti
con la cultura cremonese, riportando integralmente tre lettere scritte
dal pittore mentre lavorava per la Biblioteca degli Agostiniani, dalle
quali si apprende che il Cavagna aveva stretto amicizia con "li due pittori
principali, il signor Gervasio e il signor Gio. Battista Malosso".
Non è però esatto ritenere che il Cavagna
mostrasse interesse per le novità che si erano affermate a Cremona
soltanto dopo il 1595. Anche nelle opere precedenti a questa data, come
nella Vergine Assunta di Alzano (fraz. Gromosone di Nese) e nel S. Giovanni
Evangelista della basilica bergamasca di S. Maria Maggiore, nella qualità
contrastata e vibrata della luce tesa ad evidenziare l’effetto miracolistico,
Gian Paolo si mostra informato della rielaborazione della cultura correggesca
di B. e G. Gatti e del Trotti. Allo stesso modo non può passare
inosservato un intelligente aggiornamento sulle novità proposte
da Giovanni da Monte cremasco e dai Campi, i capi della "Koinè"
artistica diffusasi in Italia settentrionale in sincronia con i nuovi orientamenti
culturali prodotti dalla dominazione spagnola. Si trattava di una complessa
operazione che intonava da un lato la "maniera" al veicolo della pittura
veneziana e dall’altro alle eleganze emiliane, correggesche e parmigianinesche,
mentre, nel contempo, si apriva a influenze nordiche, rivelando una propensione
per il naturalismo illusivo e "romanista".
Il Tassi poi, che aderiva alla poetica classicistica
tardo settecentesca, come evidenzia l’apprezzamento per il "vago colorito",
per la "regolata architettura", per il "bello scortare degli ignudi", non
mancò di avvertire nelle opere del Cavagna aspetti di "naturalezza"
che egli intendeva giustamente in senso antimanieristico, ma inevitabilmente
come requisito di una ben ordinata natura. Gli studi moderni, come vedremo
in seguito, sottolineeranno queste intuizioni con maggior consapevolezza
e con altri strumenti critici, sino a trovare agganci con la corrente radicata
in Lombardia della "pittura della realtà". Nel Giudizio Universale,
ora distrutto, della chiesa di S. Defendente di Bergamo il Tassi apprezzava
il pittore che appariva "singolarissimo nell’arte sua, e particolarmente
nel nudo…, in cui spicca l’eccellenza dei pittori, essendo necessario che
peritissimo sia l’artefice nella notomia degli umani corpi, per poter a
luoghi loro, e non a capriccio, come alcuni fanno, disporre i muscoli,
i nervi, le arterie, e quelle prominenze che cagionate sono dall’orditura
dei corpi, secondo che è stato dalla natura disposto".
Guidato da quest’ottica, il Tassi fu il primo a segnalare
lo stendardo della chiesa di S. Rocco del 1591, che gli parve "opera in
vero condotta del più perfetto gusto, e della più brava maniera
che mai usasse il Cavagna, e degno perciò di particolare attenzione".
Non si può certo negare che l’anatomia di molte figure giampaolesche,
soprattutto nelle pale dipinte nella fase cinquecentesca, non sia evidenziata
da luci e da ombre che agiscono a distanza ravvicinata ottenendo effetti
di pregnanza naturalistica più accentuati che nel Moroni. La perspicuità
della resa oggettuale e l’interesse per i valori luministici, suggeriti
dalla fedeltà all’osservazione del vero, furono adottati per esprimere
una sorta di aderenza al reale i cui moventi trovano delle analogie nei
coevi fatti artistici spagnoli, nel momento dirimente tra maniera e naturalismo
seicentesco e nelle opere si poco più tarde della scuola di Toledo
(quante volte il Cavagna non ci ricorda in qualche ritratto la cifrata
severità del Greco e l’asciutto dettato del Tristàn?) così
da giustificare la collocazione fra i "falsche Spainer", per riprendere
una definizione usata in un importante scritto del 1910 dal Voss e riferita
ad alcuni ritrattisti italiani del Seicento che rivelavano affinità
con i pittori spagnoli del secolo d’oro.
Questi atteggiamenti, pur trovando appoggio nell teorie
formulate dagli scrittori dell’Italia settentrionale, dal Dolce al Lomazzo,
non possono non essere posti in rapporto con quel desiderio di concretezza
e di semplicità prodotto dall’etica rinnovata della società
post tridentina, che rispondeva alle esigenze di una religiosità
più austera e accostante. Gli anni in cui operò il pittore
coincidono con un periodo che a Bergamo è caratterizzato dall’atteggiamento
rigoroso dei vescovi Gerolamo Regazzoni (1577 – 1592) e Giovanni Battista
Milano (1592 – 1600). In consentaneità con questi orientamenti il
Cavagna si rivelò ideatore di nuove iconografie religiose, caratterizzate
dalla facile comprensibilità dell’opera, iconografie che saranno
importanti per la pittura del Seicento affermatasi tra Bergamo e Verona,
per il Ceresa e per la triade dei "caravaggeschi" veronesi.
Sulla fine del secolo, anche il Lanzi dedicò qualche
attenzione al Cavagna, inserendolo nel gruppo degli artisti aderenti alla
scuola veneziana, e lo giudicò "genio più vasto e risoluto"
del Salmeggia, per il quale non nascose le sue preferenze. Aderendo anch’egli
alle idee classicistiche ricordò e indicò, come le testimonianze
più significative del pittore, le opere il cui processo di semplificazione
è reso con una più evidente grandiosità e con una
disciplina formale più rigorosa. I tardi orientamenti del Cavagna,
infatti, si inseriscono nella consistente corrente di classicismo normalizzante,
che si diffuse in Italia settentrionale, e a Bergamo fu rappresentata dal
Salmeggia. La sua validità trovava riscontro nelle preferenze del
cardinale Borromeo, e rappresenta uno degli aspetti di quella che il Freedberg
ha definito la "Counter Maniera". Nell’ambito bergamasco gli atteggiamenti
del Cavagna rappresentano tuttavia un’originale e significativa risposta
agli orientamenti del contemporaneo Salmeggia. Infatti, nell’accentuarsi
coi decenni dell’intento normalizzante delle composizioni, evidenziato
dal rifiuto della dimensione narrativa e dalla riduzione bidimensionale
della raffigurazione, nonché dall’insistenza delle inflessioni ritmiche,
l’intento classicistico, alieno da schemi aulici, è risolto con
una pregnanza naturalistica e ritrattistica e in un dramma luministico
che non trovano riscontro nelle opere del Salmeggia. Alcune tele, databili
nel primo decennio del Seicento, come i dipinti di S. Alessandro in Colonna,
benché abbiano cadenze assonanti e atteggiamenti bilanciati suggeriti
dal desiderio di competere col Talpino, sono caratterizzate da un’impostazione
volutamente semplice e mortificata, ma sempre più sostanziosa nel
colore e nel vigore chiaroscurale, e da un’attenzione per gli aspetti rappresentativi
di tono medio e popolare.
Dopo il Lanzi, che fra le opere ricordate apprezzò
la Vergine Assunta affrescata nel coro della basilica bergamasca di Santa
Maria Maggiore, perché "viva, varia, popolata di Angioli e di Profeti,
veramente grandi, che è il più caratteristico pregio" (né
vogliamo dimenticare il Bottari che pubblicò nel 1764 le lettere
inviate dal pittore mentre lavorava a Cremona nella Biblioteca degli Agostiniani,
e che saranno trascritte dal Tassi, e Carlo Marenzi, che apprezzando "il
tocco libero, il grandioso", non mancò di sottolineare le derivazioni
da Paolo Veronese), Pasino Locatelli inserì il Cavagna fra gli "Illustri
bergamaschi" (1869), senza contribuire alla comprensione delle sue opere,
ma limitandosi a ripetere giudizi già espressi dagli altri.
Tra le guide dell’Ottocento è opportuno ricordare
l’erudito "Dizionario Odeporico" del Maironi da Ponte, (1819-20) che per
la vastità d’interessi può allinearsi con le pozioni di Carlo
Cattaneo. Con ampiezza di particolari arricchì l’elenco delle opere
del Cavagna scritto dal Tassi, descrivendo i soggetti delle tele individuate
nelle chiese del contado e ne indicò l’ubicazione con diligente
attenzione, mentre i due più autorevoli critici del secolo scorso
interessati all’area bergamasca, il Morelli e il Frizzoni, non dimostrarono
alcun interesse per il pittore. Solo il Frizzoni, in uno studio dedicato
al Lotto (1896), accennò per inciso a Gian Paolo, inserendolo tra
gli artisti che manifestarono di aderire agli atteggiamenti del pittore
veneziano, aggiungendo che le figure della pala della chiesa di S. Bernardino
in borgo S. Leonardo a Bergamo avevano movenze "simili a quelle della lottesca
tavola di S. Bartolomeo".
Nel nostro secolo, il primo a riaccendere con maggiore
partecipazione degli scrittori precedenti l’interesse per il pittore, fu
Angelo Pinetti. Già nello studio nel 1908 assegnava al Cavagna un
posto di rilievo nell’ambito della pittura bergamasca, ritenendolo il più
valido tra gli artisti di derivazione moroniana, dissentendo dai giudizi
degli storici più antichi, che da posizioni classiciste avevano
lasciato intendere le loro preferenze per il Salmeggia. Instancabile ricercatore,
il Pinetti corredò i suoi scritti con la pubblicazione di alcuni
documenti, iniziando così la ricostruzione della attività
dell’artista sulla base di precisi riferimenti cronologici. Tale ricostruzione
verrà ripresa più ampiamente nel 1931 nell’"Inventario degli
oggetti d’arte della provincia di Bergamo", in cui figura il vasto corpus
delle opere del Cavagna rintracciato sulla base delle guide precdenti.
Negli anni successivi (1932-33) i suoi appunti fornivano una aggiunta di
dipinti ritrovati nelle chiese sparse in località non facilmente
raggiungibili della vasta provincia bergamasca. Anche queste indicazioni
furono corredate da notizie archivistiche.
Frattanto cominciava a farsi strada la considerazione
per l’attività ritrattistica del pittore. Nel 1911 Ciro Caversazzi
segnalava alla mostra de "Il ritratto italiano dal Caravaggio al Tiepolo"
i bellissimi "coniugi Ambiveri".
Dopo la voce anonima su "Allgemeines Lexikon" pubblicata
da Thieme-Becker nel 1912, anche Adolfo Venturi contribuì alla conoscenza
delle opere dell’artista al di fuori della cultura locale, dedicandogli
nel 1934 un breve capitolo nella "Storia dell’Arte Italiana".
Senza mutare la linea della critica tradizionale egli
giudicò il pittore "fecondo e ineguale", oscillante tra i modi del
Moroni e del Salmeggia, "ma anche volto agli esempi di Paolo Veronese e
dei Bassano", apprezzandone, pur nella forma discontinua, le qualità
di attento ritrattista e le sottigliezze luministiche. Se il Bassi-Rathgeb
pubblicava nel 1959 alcune postille alle "Vite" del Tassi annotate da Antonio
Piccinelli nel secolo scorso – contributo non trascurabile circa la sorte
delle opere del Cavagna dopo il periodo napoleonico e le dispersioni ottocentesche
– spetterà a un conosciore moderno del Seicento, Roberto Longhi,
la riconsiderazione del "caso" Cavagna. Egli ne propose in una mostra non
dimenticata (1953) e in un intervento del 1957 una nuova lettura, collocandolo
tra i pittori della "realtà", che rappresentarono un persistente
filone, le cui radici affondano in una provincia che fu capace di produrre
una originale e intensa tradizione figurativa.
Contemporaneamente Giovanni Testori (1953) si impegnava
a documentare con un elenco sostanzioso il significato dell’arte ristrattistica
del Cavagna, riaprendo il discorso che pareva chiuso dopo che erano scomparsi
gli esemplari ricordati dal Tassi.
Sulla scia di questa rinnovata attenzione, la fama del
pittore è oggi soprattutto affidata ai ritratti, in un numero purtroppo
esiguo, se si prescinde dai committenti e dalle figure caratterizzate come
autentici ritratti, che compaiono nei dipinti a soggetto sacro. La forza
dell’evidenza rappresentativa e un più incisivo contrasto luministico
collocano i ritratti del Cavagna in un significativo parallelismo con la
parabola caravaggesca, e sono i prodotti di una situazione generazionale
diversa da quella del Moroni, che tuttavia, come fu affermato da tutta
la storiografia, fu certamente il suo esempio.
Non meno interessanti appaiono e appariranno da questa
pubblicazione, che per la prima volta le rende note nella misura più
vasta possibile, le opere sacre, nelle quali si evidenziano le molteplici
componenti venete, cremonesi, bergamasche della pittura del Cavagna, testimonianza
di una cultura variamente orientata in fasi diverse, ciò che non
è altro che il segno di un attento e colto aggiornarsi. Tuttavia
il forte accento, caratterizzato personalmente e localmente a continuare
le indicazioni di un’area culturale che negli stessi anni avrebbe fornito
il supporto per la pittura del Caravaggio, non manca mai anche nella vasta
produzione sacra dell’artista bergamasco. La sua diversa vicenda lo portò
a interpretare le richieste degli orientamenti post - tridentini di una
zona fervida nella fede, ricca di devozioni popolari, e ad assolverle degnamente
con le proposte della sua arte veridica e con ideazioni iconografiche da
vedersi come un’alternativa alle rustiche rappresentazioni dei Sacri Monti,
e che non rimasero senza seguito.
BIBLIOGRAFIA
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Civica di Bergamo.
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Civica di Bergamo.
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di Bergamo.
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