GIAN PAOLO CAVAGNA
La vita

di Luisa Bandera

Le fonti antiche non ci hanno tramandato alcuna notizia biografica di Gian Paolo Cavagna. Il Tassi, che per primo si accinse a scriverne la "Vita" preciso che dovette "penar molto a rivenirne quelle poche" che pubblicò. La stessa data nascita - 1556 - non è ricavata da un documento d'archivio, ma da una scritta, ora scomparsa, posta sulla tela rappresentate la Madonna tra S. Rocco, S. Sebastiano e quattro confratelli dell'oratorio della Dottrina Cristiana della chiesa di S. Rocco a Bergamo, in cui oltre la firma e la data di esecuzione, 1591, si poteva leggere "35 aetatis suae".
Gian Paolo Cavagna abitò a Bergamo in vicolo Zambonate, E sulla facciata della lingua casa conserva ancora al tempo del Tassi tracce di un affresco in cui il pittore aveva inserito in modo singolare e illusionistico il proprio autoritratto, raffigurandosi come un giovane che si sporgeva da una finta apertura, presumibilmente una finestra, tenendo "in una mano ... la tavolozza de' colori, e nell'altra i pennelli" (Tassi, I, p. 208). dalla prima moglie, Margherita Santina, ebbe quattro figli, di cui due, Caterina e Francesco, divennero pittori assenza però raggiungere i risultati che qualificarono il padre.
Gian Paolo compì il suo apprendistato nella bottega di Cristoforo Baschenis: la notizia fu riferita dal Pasta (1775) che affermò di aver visto il contratto stipulato tra l'artista e il padre del giovane pittore nell'archivio delle Cappuccine. Questa segnalazione troverebbe conferma in alcuni documenti del 1582 riguardanti alcune opere decorative eseguite nel cappella del Corpus Domini della chiesa di San Alessandro in Colonna di Bergamo da Gian Paolo Cavagna e da Cristoforo Baschenis il Giovane, che aveva appreso l'arte nella bottega dello zio, con ogni probabilità insieme al giovane Cavagna.
Al contrario il soggiorno a Venezia, e addirittura un alunnato nella "stanza" del Tiziano ricordati dal Tassi non trovano alcuna conferma. La esposizione fatta forse per intenti encomiastici poté essere stata suggerita dal fatto che sino alla fine dell'ottavo decennio del secolo non si hanno indicazioni riguardanti l'attività del pittore e ciò avrebbe portato a credere che si fosse trasferito nella capitale veneta.
La notorietà di Gian Paolo dovette affermarsi lentamente, se ancora nel 1588, pur di poter far parte dei pittori operanti per la basilica di S. Maria Maggiore, accettò di dipingere la pala di S. Giovanni Evangelista alla condizione che se l’opera non fosse piaciuta ai committenti, gli sarebbe stata respinta senza il rimborso delle spese.
Se si escludono alcune decorazioni per il palazzo del Podestà, questa pala fu il primo incarico importante che lo segnalò come artista di primo piano nel contesto della pittura bergamasca, in un periodo cui mancavano personalità di rilievo a contrastare la sua affermazione. Da questo momento l’attività del pittore ebbe un ritmo intenso, divisa tra la città e il contado, fra commissioni di carattere religioso e laico. I patrizi e gli esponenti delle classi sociali più elevate, volendo accrescere il loro prestigio, e desiderosi di confrontarsi, nel clima aristocratico del tardo manierismo, con quanto si faceva nella vicina Milano e nella capitale veneta, affidarono al pittore la decorazione dei loro palazzi, imprese che le trasformazioni posteriori hanno cancellato quasi per intero.
Le volte dei saloni e le gallerie dei palazzi patrizi furono dipinte con scene mitologiche, con composizioni ispirate alla storia romana e ai fatti dell’Antico Testamento, i cui "difficilissimi scorci" e le "graziosissime figure, bellissimi paesi, vaghe architetture, ingegnosi grotteschi" non mancarono di accattivarsi le lodi del Tassi, che poté affermare che "nessuno ornò mai le sue opere con maggiore varietà di cose, spargendo per entro di esse con grande proprietà, e intendimento, paesi, animali, frutti, maschere, rabeschi, cartocci, fogliami, e quant’altro può mai idearsi umano ingegno".
D’altra parte l’impulso dato dal Concilio tridentino portò al moltiplicarsi delle committenze di dipinti sacri in un fervore di attività che impegno gli ordini religiosi, le parrocchie, le confraternite e che vide il Cavagna operare da protagonista nella vasta diocesi bergamasca dal nono decennio del Cinquecento fino al 1627. Dopo la pala dipinta nel 1588 per la basilica di S. Maria Maggiore, la confraternita di S. Rocco e quella della Misericordia gli affidarono una serie di dipinti che sanzionarono definitivamente la sua affermazione. Nel 1595 Gian Paolo fu chiamato dai Padri Agostiniani di Cremona per decorare la loro Libreria. Dalle lettere che gli scrisse durante il soggiorno cremonese al padre del suo collaboratore, Giovanni Battista Grifoni, risulta che egli strinse amicizia con i pittori che hanno qualche affinità con lui: Gervasio Gatti e G. B. Trotti, che espressero il loro apprezzamento per quanto stava eseguendo.
La famigliarità con pittore trevigliese Giovanni Battista Grifoni può essere stata il tramite per procurare al Cavagna l’importante commissione per la chiesa di S. Martino a Treviglio eseguita con l’aiuto del figlio Francesco, che secondo il Tassi aveva cominciato a collaborare col padre dal tempo degli affreschi cremonesi. Da una lettera riportata dal Tassi nella biografia del pittore apprendiamo che egli si trovava nella cittadina nel 1597, data a cui si può far risalire la decorazione del soffitto "con finti sfondi a chiaro scuro fingendo archi rialzati a sesto di ottima architettura", come annota Giacomo Carrara in un manoscritto che avrebbe dovuto servire per la storia della pittura bergamasca "… sotto i quali cadono le finestre laterali a ciascheduna delle quali finestre sono due Profeti […] dipinti a colori naturali tutti diversi d’atteggiamenti in numero di 24 poiché le arcate sono sei per parte […]. Ai lati di dette arcate risale l’architettura in figura di mensola espressa […] da due Cariatidi cioè una parte per le quali portano la cornice, sopra nella quale nel mezzo che vale a dire sopra le finestre quadre, […] evvi finto un tondo tenuto da due putti uno per parte, […] e in detti tondi sono espresse a colori naturali varie storie e tutto ciò nella grande navata di mezzo. Sul muro delle navate laterali corrispondenti alle arcate erano dipinti in nicchie vari Santi e Sante…" (Archivio Accademia Carrara, Bergamo). Purtroppo tutta la chiesa, ad eccezione dei medaglioni centrali, fu ridipinta nel 1775 dai fratelli Galliari, e l’attività dei due Cavagna è ora solo documentata dalle tele del presbiterio e da quella nella cappella di S. Caterina eseguita tra il 1602 e il 1605.
Nello stesso periodo Gian Paolo dipinse a Piacenza il Martirio di S. Sisto e S. Lorenzo, per la chiesa dedicata a S. Sisto, precedentemente affidato a Camillo Procaccini. Non abbiamo invece alcun riferimento d’archivio per datare il soggiorno del Cavagna a Brescia per gli affreschi di S. Maria del Lino. È certo che a Bergamo, con l’inoltrarsi del nuovo secolo, l’artista dovette competere con un altro pittore locale, Enea Salmeggia che, ormai affermato in città e già sostenuto dalla fama che si era acquistata a Milano, dovette apparirgli un concorrente non facilmente superabile.
Tale rivalità trova eco nelle lunghe trattative svolte nel 1615 dai Reggenti della basilica di S. Maria Maggiore per la decorazione della cupola. Per superare l’ostacolo era stata presa una decisione salomonica, e certo inusitata: il riquadro centrale con l’Incoronazione della Vergine sarebbe stato dipinto dai due pittori, e poi si sarebbe estratto a sorte la parte toccata a ciascuno. La decisione non dovette essere gradita al Salmeggia, che scrivendo al ministro per rifiutare l’incarico così concludeva: "et così che [sic] più di me desidera tal opera haverà il campo libero" (Biblioteca Civica di Bergamo, Archivio MIA).
Qualche anno più tardi i due pittori, insieme a Francesco Zucco, sono ancora in gara, per l’allogazione della pala col Martirio di S. Alessandro da mettersi al centro del coro della chiesa di S. Alessandro in Colonna. Per concorrere ciascuno dovette eseguire un dipinto per la cappella di S. Grata; sulla base di queste opere fu deciso che l’esecuzione della tela del presbiterio fosse affidata al Talpino.
Nonostante queste difficoltà e contrarietà il Cavagna, anche a detta del Tassi, "continuò indefessamente a lavorare" e la sua produzione è stata assai vasta.
In una supplica ai Reggenti della basilica di S. Maria Maggiore a proposito dei lavori della cupola, il pittore scriveva di aver lavorato "a rischio della salute, poiché sopra preso più volte da febre, [l’]ho trascurata per servirli".
Da questo referto viene confermato che solamente le sue opere, con le date segnate accanto alla firma o indicate nei documenti di allogazione, costituiscono la storia della sua vita di pittore e di uomo, se si prescinde dai due matrimoni, l’uno ricordato dal Tassi, l’altro documentato in una carta dell’archivio di S. Alessandro della Croce, avvenuto il 24 novembre 1611, "non essendosi fatte alcune pubblicazioni". Altre notizie non ci sono.
Gian Paolo Cavagna fece testamento il 17 maggio 1627 (Fornoni) e morì a Bergamo il 20 dello stesso mese, come indica l’atto di morte esistente presso l’archivio parrocchiale di S. Alessandro in Colonna. Fu sepolto in S. Maria delle Grazie.
 
LA CRITICA
 
"Se non è meraviglia che gli scrittori nostri abbiano i nomi di que’ pittori taciuto, de’ quali poche opere, o niune sono rimaste, è strano certamente che non abbiano fatto menzione alcuna di Gio. Paolo Cavagna" scriveva il Tassi alla fine del Settecento, iniziando la biografia del pittore, stupito dalla trascuratezza degli storici verso un artista che aveva lasciato una copiosissima testimonianza della sua attività, svolta non solo a Bergamo, ma anche nelle città vicine, come Cremona e Brescia.
Infatti i dipinti del Cavagna non trovano alcun riscontro nella letteratura artistica del Seicento e neppure nel Ridolfi, che pure dimostrò di avere particolari attenzioni verso per gli artisti vicini al suo tempo. Fanno eccezione alcune guide locali che tramandano scarse memorie delle opere eseguite dal pittore: sono i bresciano Faino e Paglia, che ricordano l’affresco eseguito in S. Maria del Lino, Emanuele Lodi, che rammenta l’attività svolta a Treviglio, e il bergamasco Donato Calvi, che ci lascia un primo, esiguo elenco di tele viste nelle chiese della sua città e delle diocesi. A questi brevi cenni si deve aggiungere un’altra testimonianza lasciataci da fra’ Timoteo da Mantova relativamente agli affreschi della Biblioteca degli Agostiniani di Cremona, distrutta tra il 1815 e il 17. La grandiosa architettura, a tre navate, iniziata nel 1589 dal priore Benigno degli Abiati, sorgeva presso la chiesa gotica di S. Agostino, e ospitava, come riferisce il manoscritto che si conserva presso la Biblioteca Civica cremonese, l’Accademia Biblica di Scienze Teologiche. L’intero ciclo decorativo, eseguito nel 1595 dal Cavagna con l’aiuto di Gian Battista Grifoni insieme a Orazio Lamberti e a fra’ Sollecito da Lodi, doveva illustrare le finalità dottrinali e teologiche dell’Accademia, a cui avevano dato la loro adesione personaggi come il vescovo Speciano, che in sincronia con gli orientamenti controriformistici, erano attenti a stroncare il sorgere di tendenze eretiche, che a Cremona avevano dato segni preoccupanti anche nell’ambito degli stessi ordini religiosi. I quadri affrescati nei soffitti delle tre navate rappresentavano temi alludenti alle discipline letterarie e filosofiche e all’Antico e Nuovo Testamento, ed erano collegati fra loro da trofei, emblemi e scritte che illustravano il significato allegorico delle varie scene, in un complesso che forse si riallacciava ai motivi introdotti a Mantova da Giulio Romano e adottati dai Campi.
Ma per tornare alla fortuna critica del Cavagna, sappiamo che la trascuratezza dimostrata dai letterati e dagli storici seicenteschi fu in parte compensata dalla grande considerazione e ammirazione che gli dimostrò Ciro Ferri, il quale, dipingendo in S. Maria Maggiore negli anni 1665 – 67, pare, per dirla col Tassi, che "desse frequentemente d’occhio" alle opere del pittore.
Nel secolo successivo, tuttavia, le opere del Cavagna richiamarono l’attenzione dei collezionisti, che a Bergamo vantavano una tradizione di grande rilievo. L’abate Giovanni Battista Angelini, già nel 1720, segnalava alcune opere del pittore in collezioni che si pregiavano di dipinti attribuiti ai più noti artisti italiani come quelle di Francesco Vassellini de’ Muzi, vicario episcopale, del francescano Tomini, dei conti Medolago Albani di Urgnano e Secco Suardi. Lo stesso conte Carrara non mancò di arricchire la sua raccolta con opere di Gian Paolo, acquistando nel 1765 le tavole provenienti dalla chiesa dello Spasimo, e nel 1780, la bellissima Madonna del cinto, sottraendola così alla sicura dispersione conseguente alla demolizione della chiesa degli Agostiniani di Romano Lombardo. Un S. Francesco firmato, come hanno accertato le ricerche di Laura Mattioli Rossi (tesi di laurea, Milano, 1975) figurava nel 1795 nella raccolta di Ca’ Remier a Venezia.
Il rinverdirsi della fama del Cavagna nell’ambito del collezionismo privato si può arguire anche dalla stima dei suoi quadri elencati in un inventario steso il 7 agosto 1797 dei dipinti che si vendevano nella bottega di proprietà di un certo Antonio Bellotti di Crema. Da questo documento, che si conserva nella Biblioteca Civica di Bergamo, segnalatomi dalla cortesia di Mons. Luigi Chiodi, si apprende che un Crocifisso del pittore era stato valutato £ 22, mentre un ritratto del Moroni £ 20 e un Miracolo di S. Domenico attribuito a Paolo Veronese £ 15. Nondimeno si dovrà arrivare all’ultimo quarto del Settecento perché l’opera di Gian Paolo sia oggetto, almeno a livello locale, di una prima, anche se parziale, valutazione critica.
Iniziò con Francesco Bartoli, che nelle "Pitture, Sculture e Architetture delle chiese e dei luoghi pubblici di Bergamo" (1774) stese un inventario esatto e abbastanza nutrito delle opere, e continuò col Pasta, il quale guidato dagli ideali illuministici alla riscoperta della tradizione artistica della sua città, nelle "pitture notabili di Bergamo" (1775) ampliò l’elenco lasciato dagli storici precedenti e corredò le citazioni con giudizi che non sono soltanto genericamente elogiativi. Si sforzò infatti di indagare criticamente l’attività del pittore, cercando di definire le componenti della sua formazione artistica, che vide diramata oltre la cerchia locale. Insieme al Moroni e a Cristoforo Baschenis di Averara, che, secondo un documento da lui ricordato, risulta essere stato il suo primo maestro, il Pasta rilevò influenze veneziane, sino a definire il Cavagna "emulo" di Paolo Veronese. Fu il primo che cercò anche di evidenziare le caratteristiche più significative della produzione dei due protagonisti della pittura bergamasca del tardo Cinquecento, che ebbero in comune un intento normalizzante, e già, se non antimanieristico, certamente "dopomanieristico": il Cavagna e il Talpino. Mentre nelle opere di quest’ultimo, lo scrittore sottolineava "i graziosi atteggiamenti" e "la soavità del colorito", nel primo ammirava "la forza delle tinte" e "la energia delle espressioni", sottolineando così una indipendenza, almeno in termini generali, dagli orientamenti classicheggianti del Salmeggia.
Facendo seguito al Pasta, in un’impresa di diversa concezione, nelle "Vite dei pittori bergamaschi" (1793) Francesco Maria Tassi raccolse le notizie, per la verità piuttosto esigue, per la biografia del pittore, cercando di documentarne la vasta produzione.
"Sentendo[si] così… sopraffatto da una falange di opere innumerevoli… da sì ferace pennello sparse e disseminate" prese tuttavia in esame quelle "di eterna memoria più meritevoli", limitandosi per le altre a ricordare le chiese e i paesi nei quali era possibile rintracciarle.
Sebbene poi affermasse che il Cavagna "usò scrivere il proprio nome e il millesimo in quasi tutte le sue opere a olio", il Tassi non segui nell’elenco un ordine cronologico. Il motivo deve essere ricercato, a nostro avviso, oltre che nella scarsa filologia dello storico settecentesco, anche nel fatto che in realtà poche sono le tele datate, mentre moltissime sono quelle firmate. Va anche notato che nella fase della maturità si notano nell’artista pochi mutamenti e sviluppi, cosicché il biografo deve aver avvertito la difficoltà di seriare le opere.
Ignorando l’alunnato presso Cristoforo Baschenis ricordato dal Pasta, il Tassi riferì che il Cavagna "portossi ancora giovinetto in Venezia e volle buona sorte che fosse introdotto nella fiorentissima stanza di Tiziano". La notizia non trova conferma in nessuna altra attestazione scritta, né tantomeno nelle opere giovanili del pittore, il cui venezianismo sembra piuttosto orientato verso il Tintoretto e il Veronese, e filtrato dagli artisti tardo - manieristici dell’entroterra, come il Maganza. Né mancano inflessioni derivate dai modi dei pittori bresciani e cremonesi, la cui carica espressiva, di stampo nordicizzante, rappresentava una diversificazione dal classicismo cromatico di origine veneta. Per esemplificare, si può ricordare l’Incoronazione della Vergine con i Santi, Giovanni Battista, Francesco, Maddalena e Giovanni Evangelista della chiesa parrocchiale di Casnigo del 1580, la prima opera datata che si conservi, in cui il Cavagna rielabora insieme ad ascendenze venete uno schema morettiano e interpreta con intelligente filtratura il luminismo del Savoldo, ottenendo risultati che sono da porsi in parallelo a quelli ricercati da Vincenzo Campi. Solo verso la fine del Cinquecento si evidenziano in lui, in misura maggiore, le attenzioni per la pittura veneziana, con particolari interessi per il manierismo che era stato elaborato nella città lagunare.
Non dovette essere estranea a queste convergenze la presenza a Milano, già dal quinto decennio del secolo, di opere di artisti rappresentanti gli atteggiamenti più eterodossi e innovatori dell’area settentrionale: Francesco Salviati e Giovanni De Mio. Forse da quest’ultimo, più ancora che dai cremonesi, il Cavagna derivò l’attenzione per i romanisti nordici, che si manifesta sia nella ricerca di effetti plasticamente illusivi, sia nel modo di costruire i paesaggi con quinte di rocce e di alberi frondosi, toccati da brevi tratti di luce. Un interesse spiccato per la pittura dei Bassano, in particolare di Francesco e di Leandro, portò Gian Paolo a darne un’interpretazione che naturalizzava gli effetti di luce, così che sembra anticipare certi veronesi come il Bassetti.
D’altra parte il crescente prestigio della pittura veneziana aveva lasciato tracce anche a Bergamo, e il biografo non mancò di ricordare che nel 1592 il Cavagna fu chiamato a restaurare quattro grandi ovati appena inviati da Francesco Bassano per la basilica di Santa Maria Maggiore, ciò che sembrava altresì attestare che egli fu ritenuto il più consentaneo alla maniera del pittore veneto. Il Tassi poi, non trovando elementi per sostenere la notizia dell’alunnato presso Tiziano, si affrettò ad aggiungere che il pittore "dopo essere stato alcun tempo presso di lui, partitosene… volle restituirsi alla patria, ove giunto, ed appreso da Gian Battista Moroni l’impasto dei colori, da sé poi si formò una maniera di dipingere, che fu sua propria". In questa personale maniera non mancò di avvertire, come il Pasta, influenze veronesiane. Inoltre lo studioso sottolineò, sia pure limitandosi alle notizie senza trarre considerazioni stilistiche, i rapporti con la cultura cremonese, riportando integralmente tre lettere scritte dal pittore mentre lavorava per la Biblioteca degli Agostiniani, dalle quali si apprende che il Cavagna aveva stretto amicizia con "li due pittori principali, il signor Gervasio e il signor Gio. Battista Malosso".
Non è però esatto ritenere che il Cavagna mostrasse interesse per le novità che si erano affermate a Cremona soltanto dopo il 1595. Anche nelle opere precedenti a questa data, come nella Vergine Assunta di Alzano (fraz. Gromosone di Nese) e nel S. Giovanni Evangelista della basilica bergamasca di S. Maria Maggiore, nella qualità contrastata e vibrata della luce tesa ad evidenziare l’effetto miracolistico, Gian Paolo si mostra informato della rielaborazione della cultura correggesca di B. e G. Gatti e del Trotti. Allo stesso modo non può passare inosservato un intelligente aggiornamento sulle novità proposte da Giovanni da Monte cremasco e dai Campi, i capi della "Koinè" artistica diffusasi in Italia settentrionale in sincronia con i nuovi orientamenti culturali prodotti dalla dominazione spagnola. Si trattava di una complessa operazione che intonava da un lato la "maniera" al veicolo della pittura veneziana e dall’altro alle eleganze emiliane, correggesche e parmigianinesche, mentre, nel contempo, si apriva a influenze nordiche, rivelando una propensione per il naturalismo illusivo e "romanista".
Il Tassi poi, che aderiva alla poetica classicistica tardo settecentesca, come evidenzia l’apprezzamento per il "vago colorito", per la "regolata architettura", per il "bello scortare degli ignudi", non mancò di avvertire nelle opere del Cavagna aspetti di "naturalezza" che egli intendeva giustamente in senso antimanieristico, ma inevitabilmente come requisito di una ben ordinata natura. Gli studi moderni, come vedremo in seguito, sottolineeranno queste intuizioni con maggior consapevolezza e con altri strumenti critici, sino a trovare agganci con la corrente radicata in Lombardia della "pittura della realtà". Nel Giudizio Universale, ora distrutto, della chiesa di S. Defendente di Bergamo il Tassi apprezzava il pittore che appariva "singolarissimo nell’arte sua, e particolarmente nel nudo…, in cui spicca l’eccellenza dei pittori, essendo necessario che peritissimo sia l’artefice nella notomia degli umani corpi, per poter a luoghi loro, e non a capriccio, come alcuni fanno, disporre i muscoli, i nervi, le arterie, e quelle prominenze che cagionate sono dall’orditura dei corpi, secondo che è stato dalla natura disposto".
Guidato da quest’ottica, il Tassi fu il primo a segnalare lo stendardo della chiesa di S. Rocco del 1591, che gli parve "opera in vero condotta del più perfetto gusto, e della più brava maniera che mai usasse il Cavagna, e degno perciò di particolare attenzione". Non si può certo negare che l’anatomia di molte figure giampaolesche, soprattutto nelle pale dipinte nella fase cinquecentesca, non sia evidenziata da luci e da ombre che agiscono a distanza ravvicinata ottenendo effetti di pregnanza naturalistica più accentuati che nel Moroni. La perspicuità della resa oggettuale e l’interesse per i valori luministici, suggeriti dalla fedeltà all’osservazione del vero, furono adottati per esprimere una sorta di aderenza al reale i cui moventi trovano delle analogie nei coevi fatti artistici spagnoli, nel momento dirimente tra maniera e naturalismo seicentesco e nelle opere si poco più tarde della scuola di Toledo (quante volte il Cavagna non ci ricorda in qualche ritratto la cifrata severità del Greco e l’asciutto dettato del Tristàn?) così da giustificare la collocazione fra i "falsche Spainer", per riprendere una definizione usata in un importante scritto del 1910 dal Voss e riferita ad alcuni ritrattisti italiani del Seicento che rivelavano affinità con i pittori spagnoli del secolo d’oro.
Questi atteggiamenti, pur trovando appoggio nell teorie formulate dagli scrittori dell’Italia settentrionale, dal Dolce al Lomazzo, non possono non essere posti in rapporto con quel desiderio di concretezza e di semplicità prodotto dall’etica rinnovata della società post tridentina, che rispondeva alle esigenze di una religiosità più austera e accostante. Gli anni in cui operò il pittore coincidono con un periodo che a Bergamo è caratterizzato dall’atteggiamento rigoroso dei vescovi Gerolamo Regazzoni (1577 – 1592) e Giovanni Battista Milano (1592 – 1600). In consentaneità con questi orientamenti il Cavagna si rivelò ideatore di nuove iconografie religiose, caratterizzate dalla facile comprensibilità dell’opera, iconografie che saranno importanti per la pittura del Seicento affermatasi tra Bergamo e Verona, per il Ceresa e per la triade dei "caravaggeschi" veronesi.
Sulla fine del secolo, anche il Lanzi dedicò qualche attenzione al Cavagna, inserendolo nel gruppo degli artisti aderenti alla scuola veneziana, e lo giudicò "genio più vasto e risoluto" del Salmeggia, per il quale non nascose le sue preferenze. Aderendo anch’egli alle idee classicistiche ricordò e indicò, come le testimonianze più significative del pittore, le opere il cui processo di semplificazione è reso con una più evidente grandiosità e con una disciplina formale più rigorosa. I tardi orientamenti del Cavagna, infatti, si inseriscono nella consistente corrente di classicismo normalizzante, che si diffuse in Italia settentrionale, e a Bergamo fu rappresentata dal Salmeggia. La sua validità trovava riscontro nelle preferenze del cardinale Borromeo, e rappresenta uno degli aspetti di quella che il Freedberg ha definito la "Counter Maniera". Nell’ambito bergamasco gli atteggiamenti del Cavagna rappresentano tuttavia un’originale e significativa risposta agli orientamenti del contemporaneo Salmeggia. Infatti, nell’accentuarsi coi decenni dell’intento normalizzante delle composizioni, evidenziato dal rifiuto della dimensione narrativa e dalla riduzione bidimensionale della raffigurazione, nonché dall’insistenza delle inflessioni ritmiche, l’intento classicistico, alieno da schemi aulici, è risolto con una pregnanza naturalistica e ritrattistica e in un dramma luministico che non trovano riscontro nelle opere del Salmeggia. Alcune tele, databili nel primo decennio del Seicento, come i dipinti di S. Alessandro in Colonna, benché abbiano cadenze assonanti e atteggiamenti bilanciati suggeriti dal desiderio di competere col Talpino, sono caratterizzate da un’impostazione volutamente semplice e mortificata, ma sempre più sostanziosa nel colore e nel vigore chiaroscurale, e da un’attenzione per gli aspetti rappresentativi di tono medio e popolare.
Dopo il Lanzi, che fra le opere ricordate apprezzò la Vergine Assunta affrescata nel coro della basilica bergamasca di Santa Maria Maggiore, perché "viva, varia, popolata di Angioli e di Profeti, veramente grandi, che è il più caratteristico pregio" (né vogliamo dimenticare il Bottari che pubblicò nel 1764 le lettere inviate dal pittore mentre lavorava a Cremona nella Biblioteca degli Agostiniani, e che saranno trascritte dal Tassi, e Carlo Marenzi, che apprezzando "il tocco libero, il grandioso", non mancò di sottolineare le derivazioni da Paolo Veronese), Pasino Locatelli inserì il Cavagna fra gli "Illustri bergamaschi" (1869), senza contribuire alla comprensione delle sue opere, ma limitandosi a ripetere giudizi già espressi dagli altri.
Tra le guide dell’Ottocento è opportuno ricordare l’erudito "Dizionario Odeporico" del Maironi da Ponte, (1819-20) che per la vastità d’interessi può allinearsi con le pozioni di Carlo Cattaneo. Con ampiezza di particolari arricchì l’elenco delle opere del Cavagna scritto dal Tassi, descrivendo i soggetti delle tele individuate nelle chiese del contado e ne indicò l’ubicazione con diligente attenzione, mentre i due più autorevoli critici del secolo scorso interessati all’area bergamasca, il Morelli e il Frizzoni, non dimostrarono alcun interesse per il pittore. Solo il Frizzoni, in uno studio dedicato al Lotto (1896), accennò per inciso a Gian Paolo, inserendolo tra gli artisti che manifestarono di aderire agli atteggiamenti del pittore veneziano, aggiungendo che le figure della pala della chiesa di S. Bernardino in borgo S. Leonardo a Bergamo avevano movenze "simili a quelle della lottesca tavola di S. Bartolomeo".
Nel nostro secolo, il primo a riaccendere con maggiore partecipazione degli scrittori precedenti l’interesse per il pittore, fu Angelo Pinetti. Già nello studio nel 1908 assegnava al Cavagna un posto di rilievo nell’ambito della pittura bergamasca, ritenendolo il più valido tra gli artisti di derivazione moroniana, dissentendo dai giudizi degli storici più antichi, che da posizioni classiciste avevano lasciato intendere le loro preferenze per il Salmeggia. Instancabile ricercatore, il Pinetti corredò i suoi scritti con la pubblicazione di alcuni documenti, iniziando così la ricostruzione della attività dell’artista sulla base di precisi riferimenti cronologici. Tale ricostruzione verrà ripresa più ampiamente nel 1931 nell’"Inventario degli oggetti d’arte della provincia di Bergamo", in cui figura il vasto corpus delle opere del Cavagna rintracciato sulla base delle guide precdenti. Negli anni successivi (1932-33) i suoi appunti fornivano una aggiunta di dipinti ritrovati nelle chiese sparse in località non facilmente raggiungibili della vasta provincia bergamasca. Anche queste indicazioni furono corredate da notizie archivistiche.
Frattanto cominciava a farsi strada la considerazione per l’attività ritrattistica del pittore. Nel 1911 Ciro Caversazzi segnalava alla mostra de "Il ritratto italiano dal Caravaggio al Tiepolo" i bellissimi "coniugi Ambiveri".
Dopo la voce anonima su "Allgemeines Lexikon" pubblicata da Thieme-Becker nel 1912, anche Adolfo Venturi contribuì alla conoscenza delle opere dell’artista al di fuori della cultura locale, dedicandogli nel 1934 un breve capitolo nella "Storia dell’Arte Italiana".
Senza mutare la linea della critica tradizionale egli giudicò il pittore "fecondo e ineguale", oscillante tra i modi del Moroni e del Salmeggia, "ma anche volto agli esempi di Paolo Veronese e dei Bassano", apprezzandone, pur nella forma discontinua, le qualità di attento ritrattista e le sottigliezze luministiche. Se il Bassi-Rathgeb pubblicava nel 1959 alcune postille alle "Vite" del Tassi annotate da Antonio Piccinelli nel secolo scorso – contributo non trascurabile circa la sorte delle opere del Cavagna dopo il periodo napoleonico e le dispersioni ottocentesche – spetterà a un conosciore moderno del Seicento, Roberto Longhi, la riconsiderazione del "caso" Cavagna. Egli ne propose in una mostra non dimenticata (1953) e in un intervento del 1957 una nuova lettura, collocandolo tra i pittori della "realtà", che rappresentarono un persistente filone, le cui radici affondano in una provincia che fu capace di produrre una originale e intensa tradizione figurativa.
Contemporaneamente Giovanni Testori (1953) si impegnava a documentare con un elenco sostanzioso il significato dell’arte ristrattistica del Cavagna, riaprendo il discorso che pareva chiuso dopo che erano scomparsi gli esemplari ricordati dal Tassi.
Sulla scia di questa rinnovata attenzione, la fama del pittore è oggi soprattutto affidata ai ritratti, in un numero purtroppo esiguo, se si prescinde dai committenti e dalle figure caratterizzate come autentici ritratti, che compaiono nei dipinti a soggetto sacro. La forza dell’evidenza rappresentativa e un più incisivo contrasto luministico collocano i ritratti del Cavagna in un significativo parallelismo con la parabola caravaggesca, e sono i prodotti di una situazione generazionale diversa da quella del Moroni, che tuttavia, come fu affermato da tutta la storiografia, fu certamente il suo esempio.
Non meno interessanti appaiono e appariranno da questa pubblicazione, che per la prima volta le rende note nella misura più vasta possibile, le opere sacre, nelle quali si evidenziano le molteplici componenti venete, cremonesi, bergamasche della pittura del Cavagna, testimonianza di una cultura variamente orientata in fasi diverse, ciò che non è altro che il segno di un attento e colto aggiornarsi. Tuttavia il forte accento, caratterizzato personalmente e localmente a continuare le indicazioni di un’area culturale che negli stessi anni avrebbe fornito il supporto per la pittura del Caravaggio, non manca mai anche nella vasta produzione sacra dell’artista bergamasco. La sua diversa vicenda lo portò a interpretare le richieste degli orientamenti post - tridentini di una zona fervida nella fede, ricca di devozioni popolari, e ad assolverle degnamente con le proposte della sua arte veridica e con ideazioni iconografiche da vedersi come un’alternativa alle rustiche rappresentazioni dei Sacri Monti, e che non rimasero senza seguito.

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1897 G. Scotti, Bergamo nel Seicento, Bergamo.
1914 E. Fornoni, Alzano Maggiore, Bergamo.
1938 P. Pesenti, La Basilica di S. Maria Maggiore, Bergamo.
1959 R. Bossaglia, Notiziario Scoperte e Restauri, in "Arte Lombarda", n. 2 pp. 198-201.
1966 P. Capuani, La Resurrezione nell’arte delle chiese bergamasche, in "L’Eco di Bergamo", 10 aprile, p. 3.
1977 M. Lumina, S. Alessandro in Colonna, Bergamo.

(Luisa Bandera, I pittori bergamaschi dal XIII al XIX secolo, Il Cinquecento IV, Bergamo, Bolis, 1978, pp. 131-144)

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