Giovanni Raggi
La vita

di Fernando Noris
(Tratto da PITTORI BERGAMASCHI DAL XII AL XIX SECOLO, IL SETTECENTO III, raccolta di studi a cura della Banca Popolare di Bergamo, Edizioni Bolis, 1990,)

Giovanni Gerolamo Raggi, figlio di Agostino e di Angela. nacque il 26 agosto 1712 nella parrocchia bergamasca di S. Agata, a poco più di un anno di distanza dalla morte del nonno paterno il pittore genovese Pietro Paolo Raggi. Due circostanze vengono subito chiarite dai ritrovamenti d’archivio: la prima la precisazione sul nome proprio del pittore (Giovanni Gerolamo, essendo stato padrino al suo battesimo il sig. Gerolamo Angelini), accostato sino ad ora ad altre infondate letture, secondo le quali egli fu di volta in volta anche, o solo, Antonio, Paolo o Giuseppe; la seconda, che dalla sua prima formazione deve essere escluso un qualsiasi apporto del suo ambiente familiare, ossia di suo padre Agostino e di sua zia Rosa Raggi, improponibili mediatori della severa pittura secentesca dell’avo Pietro Paolo. S’è già detto che Agostino fu un modesto artigiano dedito alla doratura e che Rosa esercitò maldestramente la pittura in collaborazione prima con il padre (parrocchiale di Stezzano) e poi con il marito Giovanni Piatti (v. p. 6, nota 3 e p. 15/11). Condivisibili dunque le affermazioni del Tassi, che lo diranno allievo, prima a Bergamo, del Ghislandi e poi, a Venezia, del Tiepolo. Il suo apprendistato dovette iniziare in quella scuola sorta presso il convento del Galgario e aperta dal frate ritrattista per i giovani della città. Rimangono di questa esperienza ghislandiana molti ritratti con le fattezze di giovani allievi e solo qualche nome: Paolo Bonomini, Cesare Femi, un oscuro Berlendis, lo stesso Francesco Maria Tassi, Pietro Gualdi e, appunto, Giovanni Raggi. Nel 1732 33 il pittore già ventenne dovette entusiasmarsi a seguito della venuta in Bergamo di Giovan BattistaTiepolo per gli affreschi nella Cappella Colleoni; e desiderando conferire una svolta alla Bergamo di Giovan BattistaTiepolo per gli affreschi nella Cappella Colleoni; e desiderando conferire una svolta alla propria formazione ("diventare pittore universale", come si diceva allora) cercò di entrare in contatto col maestro veneziano. Tale contatto potè essere favorito dai frequenti e cordiali rapporti che esistevano tra il Ghislandi e il Tiepolo, del quale anzi il frate bergamasco eseguì il ritratto, tradizionalmente indicato in quello esistente presso l’Accademia Carrara. Ricordo di questa iniziale frequentazione tra il Raggi e il Tiepolo e, secondo il Tassi, la copia del S. Giuseppe che regge il Bambino fra le braccia (Chiesa di S. Salvatore, dove si conserva l’originale tiepolesco) che il giovane bergamasco eseguì "con tanta somiglianza e verità, che appena si distingue dall'originale" (Tassi). Non è invece dimostrato, come sostenuto da M. Labò in Thieme-Becker, che egli abbia collaborato alla realizzalione degli affreschi con il pittore veneto. Quando il Tiepolo se ne ripartì, le modeste e forse disagiate condizioni familiari non consentirono subito al Raggi di intraprendere un secondo più approfondito alunnato. Nell'aprile 1734 il Tiepolo, scrivendo a Bergamo, conferma di aver accolto già da qualche tempo nella sua bottega il giovane Raggi, confidenzialmente da lui nominato "Gianino". In tale lettera il Tiepolo anticipa anzi al suo corrispondente Ludovico Ferronati la certezza di poterne cavare un buon pittore, vistane "l’abilità ed amore allo studio". Dalla lettera si ricava anche che il Ferronati era stato tra quelli che gli avevano raccomandato il Raggi. In realtà il trasferimento veneziano era stato reso possibile, secondo il Tassi, dall’intervento munifico del reverendo Giovanni Pesenti, conte e canonico del duomo cui non doveva essere rimasta estranea la conoscenza e l’amicizia con il pittore Pietro Paolo Raggi, nonno di Giovanni, attivo nella cattedrale cittadina nei primissimi anni del '700. Giovanni Raggi si trattenne a Venezia otto anni, "ora copiando l’opere del Maestro, ed ora disegnando e studiando sulle opere di Tiziano e di Paolo Veronese, sul gusto del quale parrticolarmente ha formato la propria maniera" (Tassi). Con il passare del tempo il suo rapporto con Tiepolo crebbe forse sino a forme di collaborazione vera e propria, pur se non identificabile oggi con certezza in nessuna delle opere tiepolesche del periodo. Solo un’opera, già nel monastero di S. Grata a Bergamo (S. Grata presenta a S. Lupo i fiori germoglianti dal sangue di S. Alessandro) e oggi nota in due esemplari (uno già in casa Fernando Pandolfi a Roma e uno in collezione statunitense; v. p. 57, scheda 13) illustra la qualità delle prime prove del Raggi veneziano. All'interno di un imitato impianto tiepolesco essa è condotta con un equilibrio sapiente tra imitazione delle forme e ricerca di più intima atmosfera. Si sono invece perdute le tracce dei "quadretti istoeiati", inviati in casa Pesenti a Bergamo, e della pala per l’altare di S. Alberto nella chiesa dei Carmelitani a Bariano, nella provincia bergamasca sua probabile prima commessa ufficiale. Per altro rimane il dubbio che almeno un lustro degli otto anni trascorsi a Venezia sia stato utilizzato dal Raggi a dipingere così fedelmente "alla tiepolesca" dall’aver finito per incrementare cataloghi oggi certo più prestigiosi del suo. Le ricerche per restituirgli qualche sua opera del periodo dovranno essere condotte anche nell’ambito della ritrattistica, prendendo come riferimento una tipologia in bilico tra i modi ghislandiani del suo esordio, certe riminescenze bombelliane, oltre evidentemente alle preziosità cromatiche del Tiepolo o alle interpretazioni patetiche di Bartolomeo Nazari (bergamasco come il Raggi, già ben introdotto nell'ambiente artistico della laguna essendosi trasferito a Venezia fin dal 1717: i due emigrati non poterono non incontrarsi, nel ricordo della comune patria e del comune primo maestro, Fra' Galgario). Durante i suoi anni veneziani, più esattamente nel 1739 e 1740. Giovanni Raggi perdette enrrambi i genitori (d’età relativamente giovane, e a tre mesi uno dall'altro): una circostanza che avrebbe poruto sciogliere in modo definitivo il suo legame con la città di origine dove, è confermato, il padre suo Agostino non gli aveva lasciato l’avviamento di alcuna attività artistica degna di essere proseguita. Non suscita dunque meraviglia che, nella necessità o nell'occasione di un suo distacco da Venezia, il Raggi non sia rientrato a Bergamo, ma abbia scelto altra città nel caso Verona nel 1741. al seguito del suo nuovo protettore il conte Vincenzo Barzizza che vi si recava come prefetto. E, come per il periodo veneziano, ancora una volta si dovrà parlare di una lunga fase della vita di Giovanni Raggi quasi solo ricordando quanto ne scrisse il Tassi, perchè nè le guide antiche, nè memorie recenti, nè la sopravvivenza di un numero significativo di opere ci aiutano a decifrare meglio questo distacco dalla città lagunare, e dunque da Tiepolo, che non fu solo allontanamento fisico, ma progressivo e inarrestabile mutamento culturale. Miglior fortuna documentaria non sarà riservata alla parentesi mantovana vissuta dal Raggi durante gli anni di Verona e che fu altrettanto ricca di avvenimenti, privi oggi di qualsiasi conferma. Restano di questa lunga esperienza veronese (1741- 1757) i puri nomi delle famiglie con cui il Raggi entrò in contatto: quella del generale Spaar, del nobiluomo Antonio Donà, del marchese Sagramoso, dei conti Allegri, Malaspina, Ottolini, delle famiglie Burri, Favella Orti; e soprattutto quello del Maresciallo conte di Schulenburg, grande mecenate e collezionista che a Verona si era trasferito da Venezia, e che avrebbe investito, dal 1739, ben 45.000 ducati per l’acquisto di 700 dipinti, tra i quali quelli dei maggiori contemporanei artisti veneti (cfr. A. Binion 1970). L’attività del Raggi a Verona fu sollecitata specialmente per la realizzazione di ritratti (" moltissimi... per la loro somiglianza e per ogn’altra loro parte molto commendabili". Tassi) (1). Inoltre per i padri Carmelitani dipinse una tela con S. Anna, S. Gioachino con la piccola Vergine che legge. Un’altra opera "grandiosa" dovette essere quella per i conti Lazise alla Colomba "rappresentante il Merito aggruppato con la Sapienza", o quella della Maddalena portata in cielo dagli Angeli nel territorio di Caselle (ignota la prima, perduta la seconda), o una tavola per una chiesa presso Montagnana, pure ignota. E finalmente lasciò un’opera l’unica che ci rimane,nella volta della chiesa di Bovolone con la Gloria dei Santi Fermo, Rustico e Biagio, nella quale il pittore esaltò la sua formazione tiepolesca. Altrettanto non più documentabile, s’è detto. il soggiorno di Giovanni Raggi a Mantova, dove sostò alcuni mesi, su invito del marchese Nerli, cognato del veronese Sagramoso, per una serie di ritrartti per membri delle famiglie Castiglioni, Gonzaga, Busnardi oltre che per il Nerli. Il trasferimento di Giovanni Raggi da Venezia a Verona non fu motivato dunque solo dalla scelta di sfruttare l’interessata opportunità, al seguito del nuovo "Patrone", di mettersi in proprio, ma come si vedrà (v. La critica, p. 25), esso coincise con il lento, ma costante, distacco dalla pittura di Tiepolo, forse fino ad allora vissuta come modello troppo integrale e letterale per reggere alle sorti di un successivo aggiornamento personale, che nel Raggi avrà luogo attraverso una profonda riflessione sulla pittura di cultura veronese. Teslimonianza di questa sua fede tiepolesca al tramonto restano il già citato soffitto di Bovolone e la Cena in casa del Fariseo che il Raggi dipinse ("in questo primo tempo di sua dimora in Verona", dunque verso il 1742) per la chiesa bergamasca di Verdellino, ovc ancora si vede. Dopo la grande lezione di Tiepolo, frequentato negli anni del soffitto dei Gesuati, degli affreschi di Villa Loschi al Biron di Vicenza, lezione che il Raggi dovette ben recitare a Verona per buona parte del quarto decennio del secolo (nella grandiosità dell'opera per i conti Lazise, nelle Storie della Gerusalemme Liberata per il Barzizza, nella Gloria di Bovolone, nella Maddalena portata in cielo di Caselle, nelle pale d’altare del periodo) il pittore bergamasco si sarebbe gradualmente introdotto nella classicità della pittura veronese di Antonio Balestra (morto nel 1740), attraverso l’interpretazione che ne avrebbe offerto Pietro Rotari, e più ancora Giambettino Cignaroli. Quest’ultimo dal 1738 era diventato il caposcuola locale e aveva creato le premesse per una nuova sintesi anche cromatica, aggiornata sulla pittura di Sebastiano Ricci e del Piazzetta. Degli incontri tra Raggi e Cignaroli abbiamo prove indirette, che li vedranno operanti spesso nelle medesime chiese: anche il Cignaroli, ad esempio, invierà nel 1742 un’opera a Verdellino (Riposo durante la fuga in Egitto); ancora nel 1755 don Taddeo Bravi (v. Regesti) commissionò una Ascensione di Nostro Signore al Raggi (forse poi non eseguita) per la chiesa di Bonate Sopra, affermando che "questa pala ha da essere collocata a dirimpetto della pala dell’Assunta della Beatissima Vergine fatta dal Sig. Giambettino Cignaroli e deve essere in mezzo due quadri che quest’anno mi farà il Sig. Gio. Domenico Cignaroli". Ma qualora non ci fossero nemmeno questi minimi indizi, basterebbe l’evoluzione stessa della successiva pittura del Raggi a confermare questo nuovo orientamento della sua pittura, sempre più diligenee nel segno, moderata nel tocco, prudente nel colorito, patetica nei risultati espressivi. Nel 1757, secondo il Tassi, Giovanni Raggi fece ritorno a Bergamo. I suoi contatti con la città natale non s’erano mai definitivamente allentati: prova ne erano state le commissioni per il monastero di S. Grata e i quadretti in casa Pesenti negli anni ‘30, e poi quelle per Bariano e Verdellino nei primi anni ‘40. Già nel documento citato del 1755 (lettera di don Taddeo Bravi), si era potuto intravedere il desiderio del pittore di intensificare le sue relazioni con Bergamo ("giacchè il Sig. Raggi brama per far noto a questa anco di lui patria il valore del suo pennello..."): cosa che si concretizzò a seguito di un incarico assegnato al pittore quando ancora si trovava a Verona, dal conte Teodoro Albani per tre dipinti da collocare nella cappella domestica alla Dorotina di Mozzo. La fama di questo dipinto (fama che, sulla base della superstite documentazione fotografica non pare così enfaticamente condivisibile) fece acquisire al Raggi le prime successive commissioni bergamasche: La Madonna col Bambino e S. Luigi Gonzaga di Osio Sotto (pervenuta in Bergamo circa la metà dell’anno 1757), e il Ritratto del conte Giuseppe Suardi. Prima di questa, e ancora da Verona, il Raggi era già stato contattato dai Sindaci della chiesa di S. Alessandro della Croce (essendo prevosto un conte Regazzoni) per una Storia Sacra da collocare nella cappella dell'Orazione. Non viene specificato nell’atto di commisione il tema del quadro richiesto, mentre veniva chiaramente indicato che esso doveva essere "simile affatto in grandezza a quello della Capella opposto di mano del Sig. Cignaroli": ancora un confronto indiretto con la pittura di questo artista! Il decennio 1760-70 fu quello della piena affermazione del pittore in patria, e fu anche il periodo nel quale il Raggi realizzò i suoi capolavori. Secondo il Tassi il vero esordio avvenne con i due quadri di S. Alessandro della Croce (S. Bernardo e il Duca d’Aquitania e S. Stanislao Koska riceve la Comunione da un Angelo), i quali essendo collocati nella cappella dell’Orazione, possono senz’altro essere collegati con il documento sopra citato del 1757, che ne anticiperebbe così l’esecuzione al 1758-59. La positività di questo risultato, annotò il Tassi, "chiuse la bocca ad alcuni suoi emoli, li quali non cessavano di spargere critiche per alcune pitture a fresco, poco prima dipinte da lui nella chiesa di S. Bartolomeo, (...) le quali per vero dire non gli riuscirono con quella felicità che sperar si doveva dal suo pennello". In realtà tali affreschi furono un saggio davvero modesto; e bene fece il Raggi a interrompere l’uso di questa tecnica e di questo genere di pittura, con cui dimosrtava, in quegli anni '60, di non avere più l’antica dimestichezza. Ma l’osservazione del Tassi non può non far leggere anche le preoccupazioni espresse dall’ambiente artistico locale che forse si vedeva minacciato dal ritorno di questo accreditato pittore veneziano-veronese: dalle altre opere che già aveva inviato nel territorio bergamasco il Raggi si dimostrava in grado di orientare ancor di più la committenza in una direzione che travalicava la modestissima offerta locale dei pittori nativi. D’altra parte il suo ritorno intendeva colmare il vuoto creatosi a seguito della scomparsa di pittori quali Olmo (1753), Carobbio (1752), Adolfi (1744 Giacomo; 1759 Ciro). A conferma di ciò il Raggi fu subito richiestissimo e dopo le lodate tele in S. Alessandro, firmò nel 1761 il S. Rocco della chiesa di Fontana; è databile al 1762 la Festa nuziale in casa Suardi, e documentata al 1764 la Flagellazione di Chiuduno (nel presbiterio a destra opposto al Cristo sulla via del Calvario del Capella). Nel 1767 esegue il Profeta Balaam di Alzano, nel 1768 la Madonna col Bambino e i Santi Francesco di Sales e Francesca di Chantal per il monastero della Visitazione in Alzano e, forse, nel 1766, i due dipinti già nella chiesa di S. Michele dell’Arco (L’Arcangelo Michele appare al Vescovo di Siponto e L’Arrcangelo Michele benedice l’altare). Nello stesso anno 1766 il Raggi risulta pagato per un quadro che gli aveva commissionato il conte Giacomo Carrara: il dipinto risulta disperso, ma la circostanza di questo documento è importante per almeno due ragioni; la prima, che conferma una quotazione di mercato del Raggi discretamente alta: Lire 200 il Carrara le aveva spese in quegli anni solo per un bel ritratto del Moroni, mentre per i pittori moderni (due Paesi del Tavella Lire 132; due Porti di mare di Luca Carlevaris Lire 48) raramente era andato oltre Lire 100, poco meno o poco più. La seconda ragione viene invece a confermare gli ottimi rapporti tra il Raggi e il conte mecenate, tanto da far pensare che, almeno tra il 1755 e il 1768, il Carrara si sia occupato spesso di fungere da mediatore tra il pittore e alcuni suoi committenti (si veda ad esempio la lettera di don Taddeo Bravi del '55: "Se l’Ill.mo vuol degnarsi per di lui a mio vantaggio esser mediatore"; e la lettera di don G. Battista Epis del '68: "Per non perder tempo ordini S.V. Ill.ma al Sig. Raggi il quadro... e quanto al prezzo in tutto questo le Rev. Madri si rimettono a lei" (v. Regesti). Va detto che per la particolareggiata lettura degli avvenimenti veneziani e veronesi del pittore la "Vita" non può non essere il frutto di una precisa corrispondenza tra il Tassi e il giovane, poi maturo, pittore operante lontano dalla città natale (si veda al riguardo il carteggio Tassi-Bartolomeo Nazari, che lascia intendere che una simile iniziativa di analisi a tappeto, il conte bergamasco avesse avviato presso molti altri artisti di origine bergamasca) (2). Insieme al gruppo di opere che possiamo datare con precisione, come quelle sopra riportate, il Raggi ne eseguì molte altre che gli accrebbero prestigio e forse ricchezza. Questa fase della vita del pittore non fu più tuttavia documentata dal Tassi, che arresta la sua narrazione allo scadere del settimo decennio (ultima opera ricordata, Gesù consegna le chavi a S. Pietro, per la parrocchiale di Chignolo d’Isola). Per altri avvenimenti biografici particolari, scarso risulta il suo regesto: nel 1763 sposò, nella parocchia di S. Michele dell’Arco, Maria Cantoni e nello stesso anno ebbe il primo figlio, Pietro, che ritroveremo più oltre. Non abbiamo del Raggi altre notizie, poi, sino alla data e alla firma che appose nel 1771 sulla tela di Osio Sotto e poi fino al 1786 (per il saldo di un dipinto eseguito a Ponteranica nel 1765) e ancora nel 1786 in occasione del contratto per La moltiplicazione dei pani di Sorisole, completata entro l’anno successivo: 835 Lire ottenne in quella circostanza il nostro pittore, a fronte delle 770 per il quadro commissionato all’Orelli, 740 all'oscuro Francesco Silva e 925 per la tela di Mauro Picenardi. Dal punto di vista geografico questa vasta produzione, successiva al 1760, interessa uniformemente tutto il territorio della Provincia, senza che in qualche area il Raggi sia stato presente in modo più intenso o egemone rispetto ad altri artisti. Rimangono una quindicina di tele in città e un numero pari a poco più del doppio in località variamente collocate: da parrocchie dell’interland cittadino (Alzano, Scanzo, Ponteranica), ad altre dislocate all'imbocco delle Valli (Chiuduno, Ranzanico, Cenate Sopra, Nembro, Sorisole) ed altre ancora alla estrema periferia del territorio (Vilminore, Schilpario, Cortenuova). Una committenza così varia sta a conferma di una risonanza molto vasta del nome del pittore, anche se è così possibile osservare che l’ultima fase di sua attività, quella più stanca o convenzionale, finì per interessare proprio le zone culturalmente meno ricche di aspirazioni più aggiornate. Risulta infatti chiaro che dagli anni '75 80 la clientela del Raggi pretese, e condizionò, il suo fedele uniformarsi alla cultura corrente, più devozionalmente popolre. II vecchio pittore fu tuttavia capace di non cadere mai in un appiattimento creativo totale; pur se in opere di tale periodo sarà inutile ricercare tracce evidenti di trascorsi tiepoleschi e, dopo un cerro periodo, neppure più cignaroleschi. Del resto i termini di paragone della pittura locale, e residenti, si chiamavano Carobbio, Albrici, Gualdi, Peverada, Manzoni... E per reggere il confronto con tutti questi, bastava al Raggi qualche eco dell'antico mestiere e qualche forte riminiscenza luministico-cromatica di sicura presa emozionale. La sua esistenza giunse così pertanto tranquillamente all'unico episodio di una qualche rilevanza cronachistica: la sua disputa nel 1792 con le monache di S. Grata avente per oggetto la rivendicazione della paternità e del saldo, della tela tiepolesca custodita nel monastero. Ne diamo ampio cenno sia nel Regesto sia nella relativa scheda. Come è noto l’arbitrato intervenuto tra le parti (con la presenza dei pittori Vincenzo Orelli, Vincenzo Bonomini, Mauro Picenardi e l’imprenditore Domenico Botelli) diede infine ragione al Raggi. Ma non si può chiudere questo cenno biografico sul pittore senza rileggere con la stessa nostalgia che avrà ferito il Raggi nel pronunciarla la sua amara difesa, tutta impostata sugli antichi ricordi del suo alunnato venaziano, agli albori di una carriera che si prennunciava promettente. Tanto che proprio il dipinto in questione in qualche modo la preannunciava, piacendo tanto a Suore e intenditori da farlo credere "per l'esattezza del dissegno, per la vivacità del colorito, e per l’energia dell’espressione opera dell’insigne penello del mio Precettore". Prima che la vertenza si chiudesse con l’implicito, ma inequivocabile, riconoscimento dell’autografia del Raggi, il pittore morì. Era il 1 dicembre 1793. Nel registro dei morti rimase il ricordo dell’ottantaquattrenne artista come "vir in pictura excellens". L'anno successivo il figlio suo, sacerdote, gli subentrò nel condurre a conclusione la vertenza e "ad esso Rev. Signor Don Pietro assontor di Giudizio gl'è riuscito di sviluppar la piena

prova delle verità di fatto, che erano state capitolate, ed interessando anzi decidendo queste dell'onore, decoro e della gloria del precitato q.dam Signor Gio. Raggi".

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