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LA MINIERA E I MINATORI
La miniera occupa un posto rilevante nell'econoimia del museo, in armonia con l'importanzadell'industria
estrattiva nella storia della Valle e nella vita de gli abitanti di Schilpario.
Questo rilievo non deriva solo dalle antichissime origini dello sfruttamento del
sottosuolo, ma dal suo radicamento nell'economia e nella società locale, con
implicazioni che si ripercuotono sulla cultura della gente di qui (le miniere di
ferro sono state definitivamente abbandonate in anni recenti, mentre è
continuato più a lungo, anche se in modo precario, lo sfruttamento dei
giacimenti di barite). L'elemento più singolare e caratterizzante è costituito
dal ciclo integrale della lavorazione del ferro, dalla escavazione del minerale
(siderite in netta prevalenza) alla produzione di utensili (o di armi, come
avveniva ai tempi della dominazione veneta, a cui si deve l'impulso a questo
tipo di organizzazione completa dell'industria mineraria scalvina). Anche quando
le profonde trasformazioni tecnologiche e economiche della rivoluzione
industriale rendono impraticabile il ciclo integale e la produzione di manufatti
perde importanza di mercato, continua però - accanto all'estrazione la
produzione della ghisa, ottenuta con il carbone di legna. Le persistenze non
riguardano solo il ciclo di produzione: le condizioni di vita e di lavoro dei
minatori rimangono pressochè invariate, almeno fino all'avvento della "Società"
(la Falk), che subentra alla fine degli anni trenta ai consorzi di piccoli
proprietari e che introduce tecnologie moderne e cambiamenti decisivi delle
condizioni lavorative. La "stagione" mineraria iniziava a settembre e proseguiva
fino a Pasqua. Durante l'estate si portavano a termine le operazioni di
sminuzzamento del minerale “taisà”, di trasporto per la torrefazione e le
lavorazioni successive. la giornata lavorativa di dieci ore era suddivisa
tradizionalmente in “piarde”; anche le misurazioni seguono sistemi
arcaici tradizionali: il minerale, raccolto con il “val”, viene misurato
con il “quarter”; tre quarter fanno una “soma” (circa 90 chili); i
viaggi dei portatori sono conteggiati con sassolini; la scansione del tempoe
dello orario di lavoro è segnata dalla quantità di olio della lampada (1 lùm=1
piarda). La “lùm” o “lùm de Sardegna” sarà poi sostituita dalla
lampada a acetilene. L'escavazione procedeva con metodi e strumenti arcaici,
tutti fabbricati in Valle: la zappa “sapa”, il vaglio “val”, il
piccone “pic' e roca”, il martello “marte”, i vari tipi di ferri “fer,
ponte”, la mazza “masèta”, l'apposito strumento per pulire i fornelli
“spasèta”, la grande mazza e il ferro per la lavorazione a cobia (a
coppia), di maggiore resa, ma non sempre praticabile nell'angustia degli spazi;
i martello per tagliuzzare il minerale prima della torrefazione; il gerlo
tagliato dei “purtì”, che trasportavano il minerale lungo le gallerie
all'interno della miniera e il bastone che ne accompagnava il procedere curvati
(è anche un riferimento al lavoro minorile: i purtì erano per lo più ragazzi).
L'introduzione delle rotaie e dei vagonetti rappresenta una decisiva innovazione
nell'organizzazione del lavoro e consente un più efficente sistema di trasporto
del minerale. Gli stralci delle testimonianze non sono solo esplicativi rispetto
agli oggetti: vi affiora la coscienza del lavoro secolare dei "nostri vecchi"
(nella miniera si rinvengono sempre le tracce di un lavoro precedente, ancora
più duro e inumano). Il minerale veniva portato al fondovalle dagli "strusì"
, mediante le slitte “lese” (si vedano i due tipi, dell'estate e
dell'inverno, con la cavezza e i pali), lungo percorsi fissi (la via di strusì),
su pietre profondanente solcate dal passaggio delle lese. I testimoni indicano
un terzo tipo di slitta,"ol lisì cùrt"che era usato dai ragazzi di 12-13
anni, nei primi trasporti. Al corredo degli strusì appartengono anche le
racchette da neve “sèrcoi” e le ghette di canapa “striai”. Con lo
sfruttamento industriale delle miniere, vengono installate teleferiche: un
gigantesco impianto trasportava il minerale fino a Cividate Camuno, a segnare
anche il superamento della "autarchia" produttiva (l'industria siderurgica
scalvina rimane residuale, non più in grado di inserirsi nei grandi processi
economici).
Il primo documento storico sulle miniere, citato da tutti gli
autori, risale al 1100 circa (1047 secondo il Castelli, 1097secondo il Curioni) ed è il diploma con il quale Enrico III confermava agli abitanti della
Valle di Scalve i diritti e i privilegi sul commercio del ferro.
Al 1251 risale invece l'atto di divisione dei beni promiscui fra Vilmaggiore,
Barzesto e Schilpario, con il quale si assegnava a Schilpario un forno fusario
di ferro.
Della stessa epoca è l'obbligo imposto dal Barbarossa agli scalvini di
consegnare l'argento prodotto alla Zecca per il conio delle monete.
Ma l'epoca d'oro dell'industria mineraria scalcina coincide, senza dubbio, con
la dominazione veneta.
Gli abilissimi commercianti della Serenissima seppero sfruttare a meraviglia
l'operosità e l'intelligenza degli abitanti facendo fiorire una vera e propria
industria siderurgica "a ciclo integrale",che dalla escavazione ed estrazione del
minerale arrivava fino alla produzione di armi e utensilerie.
Tale industria provocò la formazione di quadri tecnici di alta specializzazione.
L'avvento della rivoluzione industriale, con le profonde innovazioni tecniche
apportate ai procedimenti siderurgiche coincise, all'inizio dell'800, con
all'arrivo in Valle dei nuovi padroni: prima Napoleone, poi l'Austria di Maria
Teresa. L'industria siderurgica locale si trova costretta ad affrontare sia le
conseguenze delle innovazioni tecniche con l'enorme aumento della produzione e
la riduzione dei costi, sia la concorrenza della più ricca e attrezzata
siderurgia austriaca. Ma gli scalvini, pur costretti ad abbandonare le
lavorazioni secondarie, tennero viva per tutto il secolo, ed oltre, la produzione
di ghisa al carbone vegetale. Sono di quell'epoca i caratteristici consorzi di
piccoli proprietari di miniere, resi necessari per tenere in vita un'attività,
costretta dall'evolversi dei tempi, a passare dalla fase artigianale alla fase industriale.
Così, mentre andavano scomparendo ad uno ad uno tutti i forni di ghisa al
carbone vegetale esistenti in Italia, i forni scalvini resistettero tenacemente,
superando perfino le crisi del primo e secondo guerra.
Ma in sostanza i primi decenni del secolo furono caratterizzati dall'inarrestabile
tramonto dell'industria siderurgica e dal sorgere ed affermarsi dell'industria
estrattiva pura e semplice.
Il minerale di Schilpario si presenta sotto forma di siderite (
carbonato di ferro) a grana più o meno fine disposta nell'orizzonte detto del "servino" che sta alla base del
triassico, avendo a letto la caratteristica
arenaria rossa, delta in gergo "saress", e al tetto la dolomia cariata, gialla
dall'aspetto spugnoso, molto usata dai nostri vecchi nelle costruzioni per la
facilità di lavorazione e per la sua proprietà isolante.
Il
cosiddetto "servino", a Schilpario, ha una potenza di circa 200 metri ed è
caricato a "franappoggio", cioè ha un andamento grosso modo analogo a quello del
versante destro del Dezzo. Nel corpo del "servino", e con un andamento
concordante, sono intercalati banchi di siderite che sono cinque e denominati da
tetto a letto: Gruffella 1°, Gruffella 2°, Lignola, Gruffone, Pannello.
Questi banchi non sempre ci sono tutti (i superiori spesso sono stati erosi)
e, anche quado ci sono, solo raramente sono tutti mineralizzati.
La loro potenza varia da pochi centimetri (e comincia a consentire la escavazione quando raggiunge
almeno gli 80 centimetri) fino a 2-3 metri e, in qualche raro caso, fino a 7-8
metri.
Lo studio della genesi di questi giacimenti ha interessato
numerosi studiosi e pare ormai universalmente accettata alla teoria della
formazione metasomatica secondo la quale alcuni strati di calcare,
depositati per sedimentazione nei fondi marini o lacustri, vennero in seguito
investiti da soluzioni idrotermali contenenti sali di ferro e manganese, le
quali sostituirono il calcio col ferro e col manganese, trasformando il carbonato di calcio in carbonato misto di ferro e manganese.
I primi tempi la povere nera era fatta con nitro e carbone di legna, legna di paghera,
ma più che altro radici. Si pestava un po' come si fa col sale nel "murter",
si bagnava anche un pò perché se no prendeva fuoco o faceva scintille… si faceva
asciugare sul fuoco e bisognava mischiarla bene con un bastone di legno… poi si
metteva al sole… quando era bella secca, si prendeva un bastoncino, si tagliava
dei pezzi di giornale … si faceva il "birulì" che si riempiva di polvere nera.
Per ogni mina -le mine allora erano corte perché erano corti i buchi dei
fornelli… non si facevano mica con le perforatrici- si mettevano una o due
cartucce, secondo la carica che si era preparata. Si faceva il buco con la
"punta" e con la "maseta"… si puliva tutto con la "spaseta"… per far penetrare
più bene quei ferri si metteva anche l'acqua, poi si asciugava bene con la "gaja",
che sarebbe lo scarto che si forma quando si usa lo "spinass" per pettinare la
canapa o il lino…
Asciugato tutto bene, mettevamo la polvere nera e la miccia... la miccia la
tagliavamo varie volte per essere sicuri che il fuoco si attaccasse bene e
così il colpo esplodeva nel modo giusto.
I nostri vecchi non facevano gli avanzamenti, ma andavano in superficie e
scavano in giù… prendevano "la vena" per i capelli… ancora adesso ci sono dei
posti pieni di acqua - su alla Stentada noi una volta per esempio stavamo
annegando… - scavando in giù i nostri vecchi facevano come delle tombe profonde…
La montagna a forza di portar via roba, cede… prima di arrivare all'Andech, dove
c'è quel canale che chiamano il Foppone, ci sono dei crepacci grandi così e ne
sono andate giù tante di pecore… ma quando vanno giù non le vedi più. Uno
pratico, in questi ultimi tempi che funzionavano le miniere, poteva andar dentro
qui al ribasso del Gaffione e venir fuori al Vivione…
Quando si perdeva la vena, bisognava cercarla con gli assaggi, perché se la
montagna è giusta… i filoni li devi trovare a forza di provare da una parte e
dall'altra… anche i periti sbagliavano delle volte e ti facevano fare
magari degli avanzamenti sbagliati… prendere la vena non era mica sempre facile…
non era sempre lì a portata di mano… come andare a prendere la minestra… bisogna
che la montagna sia giusta… il dentro corrisponde al fuori.
I minatori di Schilpario erano apprezzati anche all'estero perché erano grandi
lavoratori… e poi erano esperti… Capo primo, a fare i minatori ci vuole anche la
vista: quando si sta facendo un avanzamento, per esempio, bisogna vedere subito
come e dove fare gli scarichi dell'acqua e i buchi giusti, con le loro
posizioni e inclinazioni per far lavorare l'esplosivo nel modo che ci vuole…
perché con la detonante le cariche devono partire tutte insieme, con un colpo
solo… le volate bisogna saperle calcolare… sta saper trattare con l'esplosivo…
l'esplosivo non è una patata. Maestro non è nato nessuno… ci vuole l'esperienza.
La miniera si chiamava "frera" e i "frerì" erano quelli che
facevano i buchi nella roccia, profondi 40-50 centimetri; i minatori facevano esplodere le
mine; i "purtì" portavano fuori il minerali e chi li caricava si chiamava "manèt".
A quei tempi quando si parlava di giornata si diceva "piarda"… e una giornata di
lavoro era fatta da due piarde, per uno totale di dieci ore di lavoro! E
pensare che il nostro vitto consisteva solamente nella polenta… Il capo era il "maister"
e stava più tempo nella baracca a mettere a posto i ferri e a sistemare quello
che non andava, poi veniva anche lui a lavorare in miniera.
Un capo in una miniera contava molto: se era pratico vedeva il pericolo prima degli
altri… era il capo che doveva decidere se era meglio continuare ad avanzare in
un posto o spostarsi da un'altra parte, perché c'era pericolo o perché non
era conveniente. Se in un posto il tetto era più sicuro, ordinava di
allargarsi un po', se era pericolante si procedeva più stretti e si lasciavano
più tante colonne…
Si lavorava ancora con la "masèta", che si adoperava anche per andare in su… in
seguito invece usavamo la "còbia", una mazza più grande e più pesante che
aveva il manico come quello di un "pic"; con la còbia si lavorava in due e si
andava più svelti, e si faceva anche metà fatica, però bisognava stare molto
attenti perché era facile prendere delle mazzate. I pezzi più duri erano quelli
del minerale bianco: con la masèta si faticava proprio tanto: sembrava di bucare
un'incudine…
Dopo averlo pestato, il minerale veniva portato giù ai Fondi, dagli "strusì" con
le "lese". Facevamo il lavoro d'estate o d'inverno, secondo il posto
e le varie miniere.
Era meglio lavorare d'inverno perché la "lesa" scivolava meglio… anche se fa
freddo, c'è il pericolo della slavine e quando c'è vento non si riesce più a
capire qual è la strada. La lesa dell'estate è più piccola, ma per farla
scivolare sulle pietre si faceva molta fatica…
Sulle lese dell'inverno si caricavano sacchi di minerale per un peso totale di
8-9 quintali... allora si parlava di "some", e ogni soma era 90 chili;
per fare una soma ci volevano tre "quarter". Il minerale lo si caricava
con il "val" e per ogni quarter caricato si metteva un sassolino ne "criel",
così alla fine si faceva il conto delle some trasportate a valle.
Sulle lese dell'estate, invece si caricavano 5-6 quintali: erano lese più piccole
e si facevano scivolare su strade fatte apposta di pietre, nelle quali si sono
fatti dei solchi profondi, delle canaline, col passare continuo delle lese… si
possono ancora vedere queste pietre e si può capire la fatica degli strusì. La
lesa si tirava con la "caèsa", agganciata solo al centro quella dell'estate e
sui due lati quella dell'inverno, poi la lesa si manovrava con il "palo".
I primi viaggi si facevano a 12-13 anni… caricavamo un val e usavamo "ol lisì
curt", perché la misura della lesa variava a seconda della persona… la larghezza
era sempre quella perché doveva tenere i binari o le canaline che si
formavano forza di passare…
Le lese le facevamo noi, chi le adoperava se le costruiva da solo: il frassino
doveva essere bene stagionato e duro, "marùt", perché allora rispondeva bene. Poi
bisognava sempre avere le "zonte" adatte: le cambiavamo ogni giorno o ogni due
giorni e le mettevamo sulla secarola, dove ce ne stava non sei o sette paia;
quando si faceva la polenta il caldo andava su e faceva seccare le zonte…
Noi viaggiavamo sempre con le zonte di frassino o di "vel", ma nelle "sorc"
tenevamo pronte le "zonte di paghera", che servivano quando pioveva: non ci voleva
molto a cambiarle, bastava essere pratici del mestiere e usare le nostre
"malizie"… avevamo sempre in tasca la scatola della "sonza", che era
come la
nostra sciolina.
La strada che dalle baite e dei Fondi va fino all'Andech era divisa in tanti
pezzi detti "sorc": chi faceva lo strusì aveva il suo pezzo di strada da tenere in
ordine, prendeva un pò di terra e la buttava sulla strada quando c'erano dei
violenti temporali, metteva a posto le pietre che col tempo si erano un
mostre, preparava le zonte che andavano meglio per quello pezzo di strada…
Partivamo la mattina verso le tre dai Fondi con la nostra lesa e andavamo
su a fare il primo viaggio: in genere si facevano tre viaggi al giorno… in certe
miniere qualcuno non è faceva quattro.
Montare la teleferica è stato un lavoro lungo e difficile… montare tutti i
cavalletti… sopra Villa di Lozio c'era un'intermedia… una prima girava qui sul
colmo della montagna… sul colmo c'era solo la rotaia che girava… poi andava
all'intermedia, dall'intermedia andava ad un'altra intermedia giù nel fondovalle
sotto Villa di Lozio, alle Ràseghe, e da lì partiva in salita è andava fino alla
Valle dell'Inferno… Era lunga undici chilometri e più: andava fino a Cividate.
Viene collegata così...la cordina naturalmente è intera,ma la portante viene
interrotta ogni due o tre chilometri con i cavalcavia, altrimenti sarebbe troppo
lunga e pesante... così anche se dovesse capitare un disastro che si spacca una
corda, il disastro e rimane dentro tutto in quel tronco lì, senza investire
tutta la teleferica.
La traente invece era divisa in tre tronchi e basta; da qui andava a Villa di
Lozio, da Villa di Lozio andava giù ad un'altra intermedia e poi partiva e
andava fino a Cividate.
Un grosso lavoro: c'erano 120-130 vagonetti e ogni vagonetto pressappoco
ortava quattro quintali di minerale: il minerale era già cotto prima, nei
forni di torrefazione al Gaffione… poi da Cividate lo portavano a Sesto San
Giovanni con il treno. La teleferica l'avevano costruita per le difficoltà dei
trasporti… prima il minerale lo portavano a Darfo con i camion, poi durante la
guerra i camion li avevano portati via e allora avevano costruito la
teleferica che lo portava di là e dentro la montagna avevano fatto anche i
fornelli…
Per montare una teleferica del genere ci vogliono due o tre anni di lavoro, un
lavoro lungo e difficile: eravamo anche in 90 a portare su le corde! Tutte le
squadre partivano per portare di là le corde… una corda di 40-45 mm, ne davano
otto o nove metri per ciascuno e c'erano tronchi lunghi 400-500 metri da
sistemare, secondo la posizione del cavalletto. Un lavoro molto pericoloso, ma
per fortuna non ci sono stati incidenti gravi.
Le miniere del gruppo di Schilpario si sviluppano nell'ambito di due
concessioni minerarie: concessione Barisella e concessione Sopracroce-Fondi.
Le due concessioni sono fra loro confinanti ed abbracciano praticamente tutto
il versante destro dall'Alto Dezzo da Schilpario fino al Passo del Giovetto. I
lavori delle due concessioni sono fra loro strettamente interdipendenti e molte
delle gallerie principali partono in zona Sopracroce-Fondi ma
raggiungono i lavori di coltivazione in zona Barisella.
In tutto il gruppo si sviluppano circa 40 chilometri di gallerie e fornelli.
È interessante rilevare che la concessione Barisella, il cui decreto risale al
1881, era in origine suddivisa per ventotto buche di miniera, ognuna delle
quali corrispondeva a 100 carature. Ben difficilmente le 100 carature di una
bocca appartenevano ad uno solo proprietario; nella maggior parte dei casi ogni
bocca
era ripartita fra tre o quattro proprietari, i quali ogni anno dovevano
concordare il programma dei lavori da svolgere. Nel sottosuolo poi avvenivano
facilmente delle contestazioni, poichè capitava sovente che una massa di
minerale poteva essere raggiunta da due o più bocche. Di solito ci si regolava
con il criterio del primo arrivato.
Nel 1928 le 2800 carature del Barisella erano ancora suddivise farà bene 17
proprietari.
Attualmente le concessioni Barisella e Sopracroce formano un tutto unico e,
per comodità di riferimento, si possono dividere in quattro zone.
1. Zona dei cantieri altri che comprende praticamente i cantieri posti sul
crinale meridionale dei Colli dai 1700 metri fino ai 2000 e che dovrebbe
convogliare il minerale al centro del Gaffione (q. 1240 mt.) a mezzo di una tronco di
teleferica dalla bocca Barisella Bassa (q. 1800 mt.) alla bocca Campo (q. 1415
mt.).
Il tronco di teleferica era in progetto quando è subentrata la crisi attuale.
2. Zona dei cantieri orientali che comprende oltre alla bocca Cimalbosco a quota
1550, tutti i cantieri a est di Cimalbosco fino al Passo del Giovetto. Questa
zona, attualmente inattiva, dovrebbe convogliare il minerale al centro del Gaffione a mezzo della teleferica già esistente Cimalbosco-Campo-Gaffione.
3. Zona dei cantieri centrali che fanno capo alla galleria Campo a quota 1415,
attualmente ancora attivi, e che mandano il minerale al Gaffione con la
sopracitata teleferica.
4. Zona dei cantieri occidentali bassi che fanno capo alla galleria Ribasso
Gaffione e che convogliano il minerale direttamente al Gaffione a mezzo della
ferrovia decauville.
(da una relazione anonima predisposta poco prima della chiusura definitiva delle
miniere anni '70)