La terra, il pascolo, il coltivo
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GLI EMIGRANTI Tra passaporti e documenti di viaggio, di varie epoche e con varie caratteristiche, si è collocato anche un lasciapassare che risale alla dominazione veneta. Accanto ai documenti burocratici, alcune fotografie di emigranti, ora ritratti rassicuranti inviati ai familiari come prova della buona salute e delle buone condizioni di vita, ora immagini di lavoro - come la fotografia che ritrae alcuni emigranti di Schilpario all'imboccatura di una miniera negli Stati Uniti - e, soprattutto, esempi di scritture, lettere e memorie di grande intensità umana e espressiva, glossari annotati sui taccuini, indispensabili strumenti per comunicare. Sono state recuperate anche due cassette (scrign), il bagaglio dell'emigrante: una di esse reca incisa la scritta, semplice e significativa, LAMERICA. Queste immagini e questi documenti non pretendono di illustrare tutta la vicenda dell'emigrazione dagli spazi chiusi della Valle al mondo esterno: la Francia, la Svizzera, il Belgio, l'America, l'Africa, l'Australia, dove ci si deve spingere in cerca di lavoro, di vie d'uscita dall'urgenza del bisogno, quando il cerchio precario dell'economia familiare si incrina o si spezza. Immagini e documenti possono però offrire qualche spunto di riflessione sulla vastità e sulla complessità di un fenomeno che ha profondamente segnato i destini individuali e collettivi della gente di qui. Se è vero che la "grande emigrazione" degli anni di fine secolo trae origine dalle stesse peculiarità del decollo industriale italiano e dalle ricorrenti crisi agrarie ad esso collegate, si può dire che nella Valle penetrino assai più gli sconvolgimenti dell' industralizzazione che i suoi effetti positivi. L'emigrazione - interna o estera, temporanea o definitiva - è l'altra faccia dell'economia scalvina e ancora la caratterizza, mutando modalità, itinerari, destinazioni, dalle miniere e dai cantieri delle Americhe o dell'Africa alle fabbriche di Bergamo, Milano e delle loro periferie. Quale impatto, quale scontro tra il mondo "vasto e terribile" e la realtà chiusa, familiare, protetta della Valle, che la mancanza di lavoro e di guadagno ha però reso impraticabile e "matrigna"? Quali le bussole e le ancore - oltre alla solidarietà tra paesani che si riproduce e si cementa in terra straniera - per muoversi, comunicare, lavorare, vivere all'estero? Bastano veramente i termini dell'alternanza tra rassegnazione e ribellione a spiegare ciò che si muove nella coscienza dell'emigrante? E l'esperienza dell'emigrazione sconvolge o non piuttosto conserva sotto il vetro deformante del rimpianto, della nostalgia, del ricordo - la cultura d'origine? I documenti, le lettere, i racconti degli emigranti non danno risposte univoche, ma aprono squarci illuminati su questa realtà. La storia dell'emigrazione non è fatta tanto da dati e da numeri, quanto da tante vicende individuali, che spesso si concludono là dove sono partite, a riequilibrare, per un periodo più o meno lungo, con una somma più o meno esigua, ma sempre costata un prezzo altissimo, il cerchio spezzato della economia familiare: "L'usel che 'l va dèlons è to la 'mbecada mesa 'la beca mesa 'la sguara" L'uccello che va lontano a prendere il cibo metà lo becca metà lo perde per strada. Dalla memoria autobiografica di Tomaso May - settembre-ottobre 1979 … e io sono rimasto solo per buona combinasione mi incontrai con due individui che venivano dal australia uno era un vero australiano inglese, l'altro suo compagno era piemontese biellese due brave persone, e così mi sono associato con loro come compagno, erano due bravi prospettori, e così abbiamo comperato una barca col motorino loro sapevano operarla, e siamo partiti di nuovo giù a lungo questo yokon river cioè sempre il medesimo fiume, abbiamo percorso circa 250 chilometri e siamo andati a un punto dove ci siamo messi a prospettare, in poco tempo abbiamo fatto una discreta fortuna da lì non vera più niente da fare, siamo di nuovo partiti, abbiamo fatto di nuovo 300 chilometri, e siamo arrivati in un campo da indiani, e siamo poi andati su in una collina che si chiamava artic circle tradurlo in italiano si chiamava circolo artartico, eravamo a 160 chilometri dalle frontiere della Siberia da lì abbiamo incominciato a prospettare, ma siamo rimasti traditi del'apparenza del terreno, in poche parole per compiere il lavoro ci voleva dei macchinari, allora abbiamo dovuto fare tutto il ritorno fino alla Città da Dason per acquistare tutti macchinari, fra la spesa della compra e il trasporto mi è costato molto, e dopo avere prospettato bene siamo rimasti delusi non abbiamo trovato niente come si credeva abbiamo lasiato tutti macchinari lì e abbiamo perso tutto, si avvicinava il triste inverno era verso la metà di ottobre, siamo andati giù dove passava l'ultimo Battello che era carico di viveri, abbiamo fatto la provisione per tutto l'inverno, e ci siamo ritirati dentro una pianura in mezzo ai boschi che per fortuna abbiamo trovato una gabina abbandonata, vi era una stufa da poter far almeno il pane e il letto senza materasso quella era tutta la mobilia che abbiamo trovato abbiamo tagliato giù le piume e gli alberi e qualche erbaccia secca e quello fu il nostro materasso e così abbiamo passato tutto l'inverno lì, il freddo si aggirava sui 25 gradi ai 45 sotto zero, quelle poche ore di giorno che vi era si andava a caccia dei cervi per la carne che fa bisogno, quando finalmente è arrivato il mese di maggio siamo partiti a far ritorno a Dason City, 550 chilometri colla barca a motorino da lì a Dason City abbiamo preso il Batello che ci ha portato di nuovo a white horse chiamato mulo bianco 690 chilometri di viaggio, da lì siamo andati 10 chilometri distante dove vi era una grossa miniera del rame, e abbiamo preso lavoro a tagliare legna fuori in mezzo al deserto sotto una tenda e si dormiva in terra quella era il nostro al'oggio, verso la metà di ottobre il tempo cominciava a fare freddo e i mei compagni sono ripartiti per Dason City che si erano procurati un lavoro per l'inverno allora io cercai lavoro da minatore nella miniera e l'o trovai, fui molto contento che mi credeva da passare l'inverno e di più dopo 18 mesi di alaska era la prima volta che ebbi un letto da dormire col materasso non mi sembrava nemmeno vero, ma purtroppo dopo dieci giorni di lavoro con mia sorpresa è arrivato un telegramma dalla compagnia di chiudere la miniera, e così avevo appena la moneta limitata da fare ritorno negli stati uniti e così spedii i miei bagagli alla Città di Skagway porto di mare vi era 165 chilometri di ferrovia e di nuovo per risparmiare moneta o pensato di farle a piedi e doveva farlo in tre giorni perché il quarto giorno partiva il Bastimento che dovevo prendere per ritornare negli S.U. dunque sono partito… Svizzera, gennaio 1970 Mia cara moglie, C'ho quasi paura a iniziare questa lettera
perché nonostante tutte le promesse che ti avevo fatto sono partito anche quest'anno. Sono tanti anni che ti scrivo e poi ti dico che non partirò ma poi
vado sempre. Tu lo sai Luisa che non vado volentieri che e tanto triste stare
qua, ti penso sempre unitamente ai bambini. Anche sul lavoro mi siete sempre in
mente, quando mangio, la sera in baracca poi non faccio altro. Certe volte
batterei la testa contra i muri per non continuare a pensarci. tuo Aldo _________________________________________________ Svizzera, ottobre 1971 Cara Angela, questa sera in baracca non c'è verso di
starci dentro; la stufa non vuole tirare e fa un fumo del laltro mondo. Sono
arrivato qua alle otto bagnato come un pulcino dopo dieci ore di naia al
cantiere, su là in alto. Ha piovuto tutto il santo giorno senza smetterla un
minuto. Anche il mangiare che mi avevo portato dietro era tutto bagnato. tuo Luigi _________________________________________________ Svizzera, settembre 1972 Carissimi, Incomincia fare freddo al mattino quando
mi reco al lavoro e alla sera quando ritorno lo sento. Pazienza vi penso sempre
e fra un po' farà una scappatina casa. Pensando questo mi sembra che il tempo
sia più breve. Vi abbraccio con affetto |