Da
meccanico a Vescovo
Mai avrei pensato che, tra
i nostri allievi, si celasse un futuro Vescovo
Era l’anno 1947. Dal vescovo mons.
Bernareggi ricevo la nomina a parroco di Pezzolo di Vilminore. A
giugno lascio Tavernola ed il parroco don Piero Bonicelli, zio
dell’Arcivescovo mons. Gaetano Bonicelli. Il 13 giugno vado in Val
di Scalve per incontrarmi con l’amico di scuola don Ansuino Zanga,
curato di Vilminore che aveva messo lo zampino per avermi lassù. Mi
presento all’arciprete don Giovanni Gritti, un uomo di Dio, un padre
per i giovani parroci della Valle. Si tratta di vedere la nuova
parrocchia e l’arciprete, nonostante l’età e la giornata piovosa, mi
accompagna a piedi in Oltrepovo. Mentre attraversiamo a piedi la
parte del paese di Vilminore detta “Parrocchia” sulla porta della
cooperativa (ora negozio di Pierina Moreschi) compare sulla porta il
gestore, Roberto Panfilo, babbo di mons. Francesco, con la commessa
sig.ra Cristina Romelli, mamma di mons. Gaetano Bonicelli. Roberto
saluta con un bel “Riverisco” e poi chiede: “Sig. arciprete, dove
andate con questa pioggia?” “Vado a Pezzolo con il nuovo parroco”.
E Roberto ribatte: “Il nuovo pastore delle pecore rosse”.
Nessuna meraviglia. Erano gli anni della scelta tra la democrazia e
il comunismo di marca sovietica e nel contesto scalvino, Pezzolo
l’avrei scoperto ben presto aveva fama di essere una piccola
Stalingrado. Questo è stato uno degli incontri a me più cari ed
incoraggianti: quelle due persone mi hanno poi sempre voluto bene e
mi hanno sostenuto sempre nei miei 16 anni di permanenza in Val di
Scalve.
Babbo Roberto era conosciuto in tutta la Valle, anche perché durante
gli anni della guerra era stato l’autista della “corriera” che
faceva servizio da Darfo a Schilpario, transitando sulla Via Mala in
viaggi avventurosi durante i quali il motore a gas faceva le bizze
per cui occorreva, a volte, mezza giornata per percorrere i venti o
poco più chilo metri del tragitto. In quella missione il nostro
Roberto si fece conoscere come un uomo generoso con tutti, pronto
all’aiuto in ogni evenienza, con una fede genuina, semplice,
schietta e senza compromessi, al punto che si era guadagnato il
soprannome di “coscienza”.
Dopo la guerra la Val di Scalve, la più lontana di tutte le valli
bergamasche, era in una situazione di fame. La disoccupazione era
totale. Le frontiere dell’Italia che gli Scalvini solevano varcare
da decine d’anni come emigranti, erano bloccate. Avendo accettato
l’incarico di assistente delle ACLI scalvine, guidate allora dal
signor Pietro Gigola, ho avvertito subito l’urgenza di fare qualcosa
per il lavoro. Gli operai delle miniere di Manina, premevano perché
fossero riaperte. Per due anni i tentativi andarono a vuoto. Ma nel
1954 la Ferromin incominciò il ripristino della miniera. Ma era
urgente pensare anche ai giovani, molti dei quali, dopo le
elementari, erano costretti a fare i “famei”. Una delle iniziative
delle ACLI fu l’Ente Nazionale per l’Istruzione Professionale
(ENAIP) con lo scopo primario della formazione professionale dei
giovani con scuole e laboratori e corsi diurni di circa sette mesi.
Le aule, i programmi, i maestri d’arte, gli insegnanti, le macchine
e gli attrezzi da lavoro erano a carico degli organizzatori del
posto. I più grandi benefattori dell’iniziativa furono gli arcipreti
di Vilminore: don Giovanni Gritti e don G. Battista Maffioli che ci
ospitarono negli ambienti dell’oratorio. Ma tutti i parroci scalvini
furono degli appassionati sostenitori della scuola professionale. Il
Comune di Vilminore provvide a tutti i banchi di scuola e di lavoro.
I programmi provenivano dalle scuole di formazione dell’Alfa Romeo
di Milano e dalle scuole professionali dei Salesiani di Sesto S.
Giovanni e di Arese. Dopo otto anni, il Comune di Vilminore per
opera del sindaco, ing. Andrea Bonicelli, al quale Vilminore e la
Valle devono tanta riconoscenza, fece costruire due capannoni per i
laboratori e lo studio, nella periferia di Vilminore, verso il
cimitero. Abbiamo iniziato con i corsi di meccanica generica, di
tornitori e saldatori. In un secondo tempo ci siamo allargati alla
falegnameria ed all’elettromeccanica. Nel 1960 gli allievi
raggiunsero il ragguardevole numero di 170. Non tutti i ragazzi
passati nella scuola continuarono la loro specializzazione; però
hanno tutti avuto gli strumenti culturali di base per affrontare
meglio il difficile campo del lavoro. Molti hanno raggiunto
posizioni di riguardo con soddisfazioni notevoli sia dal punto di
vista economico che umano.
Mai avrei pensato però
che, dalla nostra scuola professionale, uscisse un vescovo!
Il nostro Francesco Panfilo, terminate le scuole
elementari come già aveva fatto suo fratello, il povero don Luciano
iniziò il suo apprendistato presso il falegname Andrea Carizzoni di
Dezzolo, che alcuni anni dopo, fu maestro d’arte nella nostra
scuola, nel settore falegnami. L’anno seguente Francesco passò al
settore meccanici che l’attirava particolarmente. Qui iniziò un
rapporto di grande attaccamento al suo maestro d’arte (il famoso
Pierì Frer) che era la colonna portante dei corsi di
specializzazione meccanica. Francesco, non accontentandosi dei
nostri corsi, passava le vacanze nell’officina del suo maestro.
Durante l’anno preferiva i giorni dedicati al laboratorio a quelli
dedicati allo studio della teoria. Era proverbiale la sua
allergia ai libri. Possedeva un carattere simpatico: tutti gli
erano amici. Non mancava di portare una parola di aiuto e di
incoraggiamento a chi si trovasse in difficoltà. Già da ragazzo
possedeva la prudenza e la saggezza di un adulto, per cui fin da
allora divenne un punto di riferimento morale per molti.
Ricordo che un giorno
entrai improvvisamente nel laboratorio e lo trovai lontano dal suo
banco di lavoro. Si buscò il mio rimprovero: “Anche tu,
Francesco!?” Ma stava semplicemente aiutando un compagno... La
sua passione sportiva inoltre lo rendeva simpatico anche fuori della
scuola.
Seppi solo in seguito che tanta passione per imparare i mestieri più
diversi era motivata dal fatto che sognava di andare in missione per
aiutare i missionari nelle loro necessità materiali. Fu il mio
confratello e compagno di scuola don Luigi Bombardieri, parroco di
Bueggio e suo confessore, ad aiutarlo a discernere la sua vocazione
ed a comprendere che il Signore voleva, non un meccanico o un
falegname per la missione, ma un sacerdote ed un evangelizzatore.
Occorreva però superare la difficoltà che Francesco aveva nel
dialogare con i libri... Don Luigi lo aiutò anche in questo
senso.
Fu così che Francesco
lasciò la nostra piccola scuola professionale per affrontare gli
studi ed una formazione specifica che l’avrebbero portato prima al
sacerdozio ed ora all’episcopato. Ma sono convinto che tante delle
virtù umane e cristiane di don Francesco hanno messo radice nella
nostra scuola. Noi lo consideriamo il più
bel fiore all’occhiello...
Caro Francesco! Quando ho saputo che ti
avevano fatto vescovo, sono stato tanto felice! Neanche se avessero
fatto vescovo me! Fui felice di averti avuto come allievo. La
nostra scuola era stata voluta e portata avanti da tante persone con
tanto amore e con tanti sacrifici perché i ragazzi della Valle di
Scalve potessero prendere il largo, non da sprovveduti, ma con
strumenti idonei e sufficienti per affrontare la vita. Tu hai
preso il largo più di tutti ed ora sei chiamato ad andare oltre.
“Duc in altum”! Prendi il largo, come hai già
fatto altre volte, forte di quello che ti è stato offerto anche
dalla nostra scuola che, nelle intenzioni dei promotori, era scuola
di mestieri, ma prima ancora: “Scuola di
vita”.
Don Giuseppe Premarini |